“Patriottismo o pace?” di Lev Tolstoj
Cos’è tutto questo? È un sogno o è la realtà? Sta accadendo qualcosa che non dovrebbe accadere, che non può essere; vorrei fosse un sogno da cui potersi svegliare. Eppure non è un sogno, ma una terribile realtà.
Il volume recentemente edito da Mattioli 1885 raccoglie nella traduzione di Verdiana Neglia tre fra i testi meno noti di Lev Tolstoj introdotti da una prefazione di Paolo Nori. Il primo, Odumajtes! [Ravvedetevi!], pubblicato sul quotidiano inglese «The Times» nel 1904 in relazione al confitto russo-giapponese; il secondo, Dve Vojny [Le due guerre], un articolo sul conflitto ispano-americano uscito nel 1898 sulla rivista «Listki Svobodnogo Slova»; e l’ultimo, Patriotizm ili mir? [Patriottismo o pace?], che dà il titolo all’intero volume, e consiste in una lettera apparsa nel 1896 sul «Daily Chronicle» in risposta al giornalista britannico J. Manson a proposito dello scontro tra gli Stati del Nord America e l’Inghilterra per la supremazia sui confini venezuelani.
Giunge il momento in cui diventa chiaro che la strada che sta percorrendo non porterà da nessuna parte, se non all’abisso che comincia a scorgere davanti a sé.
Consapevole dell’abisso civile nel quale l’umanità intera è sprofondata, in questo cammino apologetico della pace Tolstoj tenta di scuotere l’animo del lettore per renderlo cosciente della distruzione, secondo lui «certa», cui tutti noi stiamo andando incontro.
Una volta azionata la macchina, una volta avviata qualsiasi iniziativa bellica – ci mette in guardia l’autore – sarà difficile riuscire a tornare indietro. A sconcertare è senz’altro l’acume con cui lo scrittore esprime le proprie preoccupazioni su un tema che ha rappresentato l’inquietudine costante del suo tempo, e che è, a sua volta, tristemente attuale.
In ciascuno dei testi tradotti da Neglia emerge il timore per la cecità della violenza e la facilità con la quale la realtà viene celata dietro parole-apparenze. «Che fare, dunque?» si chiede, appigliandosi alla domanda di rito della Storia russa, interpellato da intellettuali di tutto il mondo. Convinto della possibilità e della necessità di risvegliare nella civiltà un sopito raziocinio, lo scrittore analizza il pensiero del popolo, dei soldati chiamati a combattere e degli uomini al potere (dallo zar alle potenze europee e d’Oltreoceano): con schiettezza e stupefacente semplicità, Tolstoj invita a mantenere uno sguardo attento e lucido e a ripensare e riformulare le convinzioni ormai erroneamente radicate.
Perciò, per quanto strano possa sembrare, la più efficace e definitiva liberazione da tutte le calamità che gli individui stessi si infliggono, tra cui la più terribile di tutte, la guerra, è perseguibile non attraverso generiche disposizioni dall’esterno, ma banalmente ricorrendo a quel semplice appello alla coscienza di ogni singolo uomo che, millenovecento anni fa, fu fatto da Gesù: che ogni uomo si ravveda, si domandi chi è, perché vive, e cosa deve o non deve fare.
Lo stesso Tolstoj, nel quasi centenario arco della sua vita, aveva vestito i panni di giovane soldato volontario e ufficiale d’artiglieria in Caucaso e poi in Crimea. Qui aveva registrato gli orrori della guerra e aveva avuto modo di constatare la vacua presunzione e la spasmodica ricerca di gloria dei capi dell’esercito, in aperta opposizione all’eroismo di tanti soldati al loro servizio: osservazioni in seguito confluite nei Sevastopol’skie rasskazy [I racconti di Sebastopoli], editi tra il 1855 e il 1856. Non stupisce dunque l’invito a “ravvedersi”, come lui stesso fece dopo una crisi esistenziale che lo portò negli anni a virare verso un ostinato pacifismo e a trasformarsi in maestro di nonviolenza e predicatore di vita fraterna, di quella religione umana «che stabilisce la relazione dell’uomo con tutto, con Dio».
In questo clima di lotta pacifica supportata da colpi di inchiostro, a fare da scudo alle sue dichiarazioni sono proprio le parole della Bibbia, che vengono affiancate senza soluzione di continuità agli innumerevoli passaggi tratti da scrittori illuminati, alle affermazioni di economi edotti e di uomini politici e alle lettere private di mamme e combattenti. Moniti, questi, che la Storia sembra aver dimenticato, o taciuto appositamente, per lasciare che risorgessero dietro interpretazioni talvolta fuorvianti, affinché potessero indirizzare il popolo verso azioni e idee a essi antitetiche.
È come se non fossero mai esistiti Voltaire, Montaigne, Pascal, Swift, Kant, Spinoza e centinaia di altri scrittori che hanno denunciato con fermezza l’insensatezza e l’inutilità della guerra, descrivendone la crudeltà, l’immoralità, la ferocia; e, soprattutto, è come se non fosse mai esistito Cristo e il suo predicare la fratellanza fra uomini, l’amore per questi e per Dio.
L’obiettivo che Tolstoj prefissa per sé e per i propri lettori è quello di imporsi contro un inganno ipnotico e una crudeltà insensata e di eliminare quel «retaggio di vecchie barbarie che è il patriottismo», sradicando secolari menzogne e abbattendo bias costruiti su un immaginario collettivo architettato ad hoc secondo un principio di autoconservazione. Testardo oppositore della dottrina e dell’educazione patriottica da cui spronava a salvaguardare i giovani, in questo volume l’autore ne decostruisce il mito di virtù necessaria, relegandola al rango di obsoleta reliquia. Alla fine, l’insegnamento appare chiaro. Non esiste per Tolstoj compromesso, nessuna zona di compresenza o intersezione, nessuna congiunzione e che possa reggere, ma solo un fondamentale binomio oppositivo difronte al quale fermarsi a riflettere e scegliere: patriottismo o pace?
Dire che il patriottismo era benefico quando fioriva in Grecia e a Roma, unificando le nazioni, e che quindi lo è anche ora, dopo diciotto secoli di vita cristiana, è come dire che, poiché l’aratura è utile e buona per il campo prima della semina, lo è anche dopo, quando il raccolto è cresciuto.