Luce d’estate ed è subito notte
Piccole storie degli uomini di provincia e il loro valore didattico per l’umanità intera
Sacrificata vittima
verso d’amore cerca fiato per non soffocare più
affittasi crepuscoli, balere ad ore piccole
morire la domenica
chiesa cattolica
estetica anestetica
provincia cronicaBaustelle – I provinciali
Luce d’estate ed è subito notte di Jón Kalman Stefánsson è il romanzo delle piccole cose e il suo sviluppo diegetico la lente d’ingrandimento su di quelle. Parlare di una trama per questo romanzo non ha senso, servirebbe qualcosa di più minuto, quindi più adatto: la trama di questo romanzo è un ricamo ben curato, un lavoro all’uncinetto da sistemare in un punto della casa che va valorizzato.
Un paesino di poco più di quattrocento persone fa da sfondo alle storie dei suoi personaggi, ognuno indagato e vivisezionato, con la precisione chirurgica di chi, con la penna, perfora fino all’osso i caratteri di ognuno. In un posto piccolo, dove la vita diventa più grande (citando dalla quarta di copertina), che ricorda quei microcosmi di Edgar Lee Masters o di Winesburg, Ohio dove ogni storia riproduce in piccolo la storia del mondo.
La scelta di Kalman Stefánsson di ambientare il tutto in una piccola realtà periferica, di una nazione, l’Islanda, che vive alla periferia della Terra, è acuta, perché nella piccola realtà le gioie e i dolori, gli sconvolgimenti e le belle notizie sono esattamente come dovrebbero essere. In una terra dove tutto si ripropone in minuscolo, ma perciò più nitido, dettagliato, dove precocemente si avvertono i cedimenti di un’epoca: le tragedie della storia non sono mai avvenute nelle capitali, ma sempre lungo i loro più remoti confini. E calandosi in queste fratture del nostro tempo, Kalman Stefánsson scrive, con una prosa che diventa più dolce e suggestiva da autore che, da giovane, scrisse soprattutto poesie, intermezzi in cui indaga la corruzione: dei tempi, dei nostri costumi, dei nostri animi.
“Benedikt è in un pub con una pinta di birra in mano, guarda la gente che passa fuori, la potenza dei fiumi di vita, pensa alle dimensioni della città, alla storia, alla mummia, beve la birra ed è completamente spiazzato perché tutto questo, la mummia, la moltitudine, la storia, non è che una scemenza, niente di niente in confronto a un’unica donna in un minuscolo paese”.
L’autore, che -come dicevamo- è stato un poeta, sa che la poesia, forse ancor più che la musica, è l’unico strumento capace di dare un senso alle nostre vite, perché ci consente di trovarlo e di definirlo in maniera così lampante da non poter non essere vero (quasi che Saba sia stato letto persino in Islanda).
“È la ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce dell’estate. Abbiamo un compito, a parte baciare labbra: sai per caso come si dice “ti desidero” in latino? E come si dice in islandese?”.
Una energica tensione verso la vita anima tutto il romanzo di Kalman Stefánsson, la cui scrittura, per alcune storie di personaggi più labili o folli, si fa nervosa, così come tesa e nervosa è la vita nelle province del mondo, laddove il grande silenzio e la notte o sono indagabili o sono come l’abisso nietzschiano che ispira allo scrutatore la necessità di indagare sé stesso. Perciò o si diventa astronomi, come uno dei personaggi, lasciando alle spalle i lussi e gli agi di tutta una vita, o ci si incupisce, si diventa più grigi. E tutti gli uomini di Kalman Stefánsson, anche quelli più grigi, sono orientati alla ricerca di un senso della vita, di cui sono vittime o attori consapevoli, e, come chi vive in provincia, cerca un’affermazione di sé attraverso quello che fa, prima che attraverso quello che è. Tutti questi uomini sono lavoratori indefessi, che non indugiano nelle fantasie, nei sogni, ma vivono, o tentano di vivere, e voraci consumano ogni ora dedicandosi alla propria vita.
“È rischioso avvicinarsi troppo ai propri sogni, possono renderti fiacco nei confronti della vita, sostituirsi alla volontà, e cos’è un uomo senza volontà?”.
“Continuiamo ad aggiungere nuove storie, ci resta difficile metterci un punto, ma forse è anche perché chi racconta la vita ha la tendenza ad andare per le lunghe -tutto quello che facciamo è in un modo o nell’altro una lotta contro la morte”.
Nella vita di provincia si impara, prima che altrove, un senso del dovere, dello stare al proprio posto, un modo di vivere dimesso e onesto, sempre orientato al fare, perseguitati da quello che Sinisgalli, parlando di noi lucani, ha chiamato “demone dell’insoddisfazione”.