I fantasmi che abitano in noi
L’incubo di Hill House di Shirley Jackson
Nulla è più imprevedibile della fortuna di un autore. Lo testimonia il caso di Shirley Jackson (1916-1965), conosciuta come la musa ispiratrice di Stephen King, e recentemente riscoperta in Italia grazie alla casa editrice Adelphi e una fortunata serie tv targata Netflix ispirata al suo romanzo di culto, L’incubo di Hill House (1959). Complice il successo sul piccolo schermo e la concomitante comparsa in libreria dei suoi scritti inediti nella raccolta Paranoia (Adelphi 2018), il mito di Shirley Jackson, la strega del Vermont, è esploso diventando un vero e proprio fenomeno di rete. Un destino improbabile per l’anonima casalinga di Bennington, madre di quattro figli, che a lungo visse all’ombra del marito, il critico letterario Stanley Edgar Hyman. Era solita definirsi «una strega» e nei suoi scritti amava far parlare posate e bicchieri; i compaesani la definivano «un po’ folle» e lei si vendicò rendendoli protagonisti del terribile racconto La lotteria, che descrive una comunità di provincia dedita ai sacrifici umani. Non conobbe il successo in vita, se non per gli articoli di economia domestica pubblicati su riviste femminili. Beveva, fumava troppo, negli ultimi anni sviluppò persino una dipendenza dalle anfetamine. Dopo la scrittura del suo ultimo libro, Abbiamo sempre vissuto nel castello, ebbe un violento esaurimento nervoso. Morì nel sonno, a soli quarantanove anni, per un attacco di cuore.
Oggi le copertine dei suoi libri, rigorosamente accompagnate da un sinistro ritratto dell’autrice in bianco e nero, pullulano sulle pagine Instagram corredate da citazioni inquietanti; in un batter d’occhio è diventata un fenomeno del passaparola, venerata da stuoli di book-blogger, designata come un must-have per ogni libreria che si rispetti.
La descrivono come la regina del gotico americano e i suoi romanzi vengono sponsorizzati sotto l’etichetta di “storie di paura”; eppure mai definizione fu più erronea. Chi si accinge a leggere il suo capolavoro, The Haunting of Hill House, aspettandosi di provare i brividi degni di una classica storia del terrore ne resterà deluso.
«L’aspetto minaccioso del soprannaturale è che attacca la mente moderna dove è più debole», il senso di L’incubo di Hill House potrebbe essere racchiuso in questa frase, pronunciata da uno dei personaggi verso la metà del libro. Gli elementi per una storia di paura che si rispetti, all’apparenza, ci sono tutti: una casa abbandonata tra le colline, un tragico antefatto di morti sospette, un professore che indaga sui fenomeni paranormali; eppure la maestria della Jackson narratrice riesce ad andare ben oltre la classica vicenda di fantasmi, ammaliando anche il lettore più disincantato.
Nessuno di noi è immune al fascino di Hill House, proprio perché il racconto – sempre in bilico tra reale e irreale – è in grado di risvegliare i fantasmi che abitano dentro la mente. E, Shirley Jackson lo sapeva bene, non esiste nulla di più abissale e impenetrabile della mente di un essere umano.
«Io credo che abbiamo solo paura di noi stessi» disse lentamente il professore.
«No» disse Luke «di vederci per quello che siamo e senza maschera».
«Di sapere quello che vogliamo davvero» disse Theodora.
L’ispirazione per la scrittura del libro venne a Shirley in seguito alla lettura di un articolo di giornale che raccontava la storia di un esperimento indetto da alcuni ricercatori di fisica: affittare una casa infestata e studiarla per registrare le proprie impressioni. Nella realtà l’esperimento non ebbe conseguenze, solo gli aridi resoconti dei ricercatori delusi che presentarono poi un inutile trattato alla Società di Ricerca di Fisica; ma nella mente di Shirley Jackson l’eccitante indagine fallita prese tutt’altra forma, consolidata per sempre in un incipit prodigioso:
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta.Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro si muoveva sola.
Ossessionata dall’idea, Shirley cercò ovunque l’immagine di una casa stregata che si mostrasse degna del suo progetto e la trovò in un vecchio edificio diroccato di una cittadina della California dove abitava la madre. Dalla visione di quella casa ormai in preda del decadimento nacque la suggestiva Hill House: la dimora dotata di vita propria, in grado di appropriarsi della mente dei suoi abitanti e di condurli alla follia. Perché la forza irresistibile del capolavoro di Jackson è data proprio da un’analisi profonda e inquietante dei meccanismi insondabili dell’inconscio.
Il libro si apre con la descrizione dell’esperimento del Professor Montague, laureato in antropologia, che affitta Hill House per l’estate intenzionato a indagare i fenomeni paranormali dal punto di vista razionale. Al fine di realizzare il suo studio, Montague invita soggetti che hanno avuto in passato esperienze legate al soprannaturale o che paiono particolarmente dotati di facoltà sensitive. Rispondono al suo appello due donne che sembrano in tutto l’opposto l’una della l’altra: la timida, fragile Eleanor e la bella e estroversa Theodora. Si aggiunge al gruppo il giovane Luke Sanderson, erede designato di Hill House, spedito sul posto dalla vecchia zia allo scopo di supervisionare l’esperimento.
L’atmosfera tra i partecipanti è inizialmente idilliaca: si sviluppa da subito una forte intesa tra Eleanor e Theodora che si scoprono così affini da definirsi addirittura cugine; Luke appare come il classico compagnone sempre pronto a scherzare e fare battute; mentre il professore sembra un docente impeccabile che guida gli allievi in gita scolastica.
La vicenda si complica con il successivo evolversi del racconto: ben presto la casa rivela i suoi lati oscuri, la notte si risveglia con strani rumori e presenze inquietanti; tracce insanguinate e colpi battuti alle porte turbano il sonno dei protagonisti. La tensione è alimentata costantemente dall’attesa: si ha sempre l’impressione che qualcosa di orribile stia per accadere. La scrittura della Jackson rafforza il tutto con uno stile che ricorda quello della Woolf (alcune atmosfere rimandano al celebre Gita al faro), i personaggi sono così vivaci e ben delineati da apparire veri e reali. La suspance è data dall’incipiente incombere della notte, dalla sinistra figura della governante Mrs. Dudley e, soprattutto, dal punto di vista inaffidabile della voce narrante in prima persona: Eleanor.
Eleanor Vance è senza dubbio il personaggio più curioso e meglio riuscito di L’incubo di Hill House. Una giovane donna che ha trascorso metà della sua vita a occuparsi della madre e, per la prima volta, scopre la felicità, lontana dalle incombenze di una vita sempre più stretta, asfissiante e monotona. Dopo la morte della madre, Eleanor percepisce l’avventura di Hill House come una liberazione e l’inizio della sua vita adulta: «Sei felice Eleanor, finalmente hai ricevuto un po’della tua dose di felicità», dice a se stessa rivolta allo specchio.
Per quanto fragile e commuovente appaia questa docile protagonista, non tarda a rivelare i suoi lati oscuri, soprattutto in relazione agli altri ospiti della casa. La sua amicizia con Theodora diventa ben presto morbosa, pervasa da un’omosessualità latente, e si instaura tra le due una dinamica di amore/odio in grado di tenere il lettore con il fiato sospeso. Theodora sembra rappresentare l’alter ego di Eleanor: è tutto ciò che l’altra non è, ben inserita nella società, ammaliante e sicura di se stessa; è dotata inoltre di una fisicità quasi esasperata, mentre l’altra pare essere un groviglio esasperato di paranoie e riflessioni.
Ciò che fino a qualche pagina prima sembrava una storia di fantasmi, diventa in breve un’indagine sui sentimenti umani. «Sto imparando le vie del cuore», si dice Eleanor quando viene a sapere improvvisamente che Luke è orfano di madre.
I segreti celati da Hill House d’un tratto paiono ben diversi dalla sorte del suo fondatore Hugh Crain, prendono la forma della vita e della morte, di domande insondabili sull’esistenza e sul senso del nostro essere al mondo: «Perché le persone vogliono sempre parlare tra loro? Voglio dire, cos’è che la gente vuole sempre scoprire sugli altri?» domanda Eleanor a Luke.
La casa stessa, con la sua costruzione architettonica irregolare a piani sfalsati, sembra assecondare il senso di smarrimento dei protagonisti. Cercando di svelare il mistero della casa stregata, in realtà ciascuno di loro sprofonda nella propria interiorità. E le mura, i rumori, le porte serrate diventano proiezione di paure nascoste. Un indizio interessante in questo senso è costituito dall’anomalia della torre: che alcuni personaggi vedono e altri non percepiscono affatto.
«È una casa materna», dice a un certo punto Luke. Il topòs della madre è un tema ricorrente in Hill House: Eleanor percepisce il richiamo della madre morta; Luke sente la casa come un abbraccio materno; e allo stesso modo il rapporto conflittuale con la figura materna determinò la depressione di cui l’autrice soffrì per tutta la vita. Si narra che la madre la definì «un aborto mancato» a causa della bruttezza e criticò sempre ogni sua scelta, compreso il matrimonio con Hyman.
Shirley Jackson condisce la narrazione con tutti gli elementi degni di una storia dell’orrore: tavolette ouija, una sensitiva, libri raffiguranti scene infernali, una scala arrugginita oscillante sul vuoto; eppure nel finale ribalta ogni nostra certezza, lasciandoci intendere che i fantasmi vanno cercati altrove, che il mistero da svelare è un altro e noi stessi ne siamo la chiave.
L’angoscia di L’incubo di Hill House è data, io credo, proprio dall’assenza di fantasmi. Si volta l’ultima pagina, a libro concluso, con l’agghiacciante certezza che in realtà i fantasmi abitano in noi, nei luoghi più reconditi della nostra mente. In tutti i suoi libri Shirley Jackson ha esplorato un ambito molto più spaventoso e, allo stesso tempo intangibile, del soprannaturale: la malattia mentale. Ne è esempio Lizzie (1954), storia di una donna vittima dello sdoppiamento di personalità. E la sua prima opera, Janice (1937), che narra il tentativo di suicidio di uno studente del college.
Ciò che rende Jackson la regina dell’orrore, affermandone incontrastato il dominio persino oltre sessant’anni dopo la morte, è proprio la sua capacità di intessere una riflessione terribilmente attuale sui meccanismi della paura umana. A farci rabbrividire non è infatti l’idea immaginifica di uno spettro vendicativo, piuttosto la consapevolezza ancora più terrificante della realtà: che sentimenti quali la vendetta, l’odio, il rancore, l’istinto omicida albergano in noi, nelle nostre apparentemente placide esistenze.
L’incubo di Hill House arrivò finalista al National Book Award nel 1960, ma non vinse. Fu proclamato vincitore quell’anno Goodbye, Columbus, di un certo Philip Roth.
«La paura» disse il professore «è la rinuncia alla logica, l’abbandono volontario di ogni schema razionale. O ci arrendiamo alla paura o la combattiamo; non possiamo andarle incontro a metà strada».
L’immagine in evidenza è tratta da: http://www.telefilm-central.org/the-haunting-of-hill-house-netflix-ordina-serie-tratta-film-horror-shirley-jackson/