Arianna Fontanot
pubblicato 4 anni fa in Cinema e serie tv

Medena zemja – Honeyland

“metà per me e metà per loro”

Medena zemja – Honeyland

La fuga dall’inquinamento, la ricerca di luoghi poco frequentati, il contatto più intenso e duraturo con la natura incontaminata costituiscono la cifra stilistica della nostra epoca: in risposta ad un progresso tecnologico incalzante e inarrestabile, e alle sue conseguenze sociali e culturali, alcuni vagheggiano il ritorno ad una dimensione ideale, quasi arcadica, in cui uomo e natura possano convivere pacificamente e in armonia.

Entro i confini del continente europeo esiste qualcuno che dalla nascita vive in questo mondo di armonia e rispetto della natura e delle sue creature: Hatidze Muratova, la protagonista del pluripremiato film macedone Medena zemja – Honeyland. Il lungometraggio prodotto e diretto da Ljubo Stefanov e Tamara Kotevska, presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2019, ha ricevuto innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti, tra cui la candidatura a due premi Oscar nel 2020 e narra la vicenda biografica di Hatidze, una degli ultimi due abitanti del minuscolo paesino di Bekirlija, nella Macedonia rurale. La donna trascorre la sua tranquilla esistenza insieme all’anziana madre senza acqua corrente né elettricità e, per vivere, pratica l’antichissima arte della dell’apicoltura tradizionale; questa le consente di ottenere una quantità di miele che vende nella città più vicina. La particolarità della sua attività risiede nel fatto che metà del favo da cui ricava il miele rimane alle api che lo hanno prodotto, così da non eliminare tutte le possibili risorse che i piccoli insetti hanno.

Il documentario offre in presa diretta momenti e scene della pacifica vita quotidiana di Hatizde, che viene turbata dall’arrivo improvviso nel villaggio di una famiglia nomade di origine turca: sette figli e una mandria a cui badare. Inizialmente la donna riesce ad instaurare un buon rapporto di vicinato, tentando di offrire ai nuovi arrivati affetto, brandy e, naturalmente, i suoi consigli sull’apicoltura. La narrazione procede senza intoppi, fluida e coerente con la dimensione arcadica di virgiliana memoria a cui, in effetti, le api e le mandrie rimandano. Tuttavia, poco dopo il suo arrivo, Hussein, il padre della famiglia nomade, accarezza l’idea di vendere egli stesso del miele, anche se si rifiuta di rispettare l’armonia che, tanto faticosamente, la sua vicina ha costruito e mantenuto.

Hatizde e Hussein sembrano i protagonisti di una fiaba moderna: un’eroina custode del delicato rapporto tra uomo e natura e un antagonista, Hussein, che, al contrario, non sembra in grado di rispettarlo; uno spirito malvagio mosso dall’appetito della necessità, che mette a repentaglio i mezzi di sussistenza della donna. Infatti Hatizde comincia a fronteggiare un sovvertimento dell’ordine che, per molto tempo e in solitudine, ha protetto e alimentato: tra umanità e natura sussiste una profonda tensione, una dualità che si traduce nel contrasto armonia-discordia e sfruttamento-sostenibilità e che la donna mantiene in equilibrio attraverso il suo comportamento rispettoso verso la natura che l’accoglie. Le riprese restituiscono il ritratto di un essere umano che accetta serenamente ogni evento, in solitudine, persino la sofferenza e la morte: in effetti uno dei momenti toccanti dell’intero documentario è costituito dal trapasso della madre di Hatizde; la donna rimane accanto al suo capezzale per giorni, avvolta dalla penombra e, nuovamente, dalla solitudine. È questo, forse, il fulcro dell’intera narrazione: l’isolamento, che fa breccia nell’idillica descrizione dell’esistenza con sferzate inaspettate, fendenti nella coscienza della protagonista e dello spettatore. La donna chiede insistentemente all’anziana madre perché abbia rifiutato tutte le proposte di matrimonio rivoltele, ma questa si limita a replicare che il padre, ormai defunto, ha deciso per lei. In ragione di questo, la perfetta “rustic isolation” – come si legge sul New York Times – turbata dalla famiglia di Hussein, non è forse così volontaria ed è, plausibilmente, l’esistenza della donna così come ella stessa la conosce ad essere messa in pericolo.

Stefanov e Kotevska, durante i tre anni delle riprese, sono riusciti a instaurare un rapporto di forte intimità ed intesa con il soggetto, che si osserva nella poesia con cui Hatizde viene ritratta: la sua aura sembra un filtro posto sulla lente della telecamera, che permea l’intera narrazione sorprendendo lo spettatore con momenti di inaspettato umorismo e, anche, di sofferenza. Se la resilienza avesse un volto, con tutta probabilità, sarebbe quello della protagonista, segnato dal tempo, dalla fatica di una quotidianità senz’agi e dagli eventi, infine dalla serena combattività offerta da una totale identificazione con la natura. E, a mio avviso, non è un caso che Hatizde Muratova si configuri come l’ultimo strenuo baluardo di un villaggio posto entro i confini – fluidi – della travagliata, ma consapevole, guerriera del continente europeo, la Macedonia (del Nord)


Su The New York Times un articolo per approfondire il film.

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