Quando il futuro non ha forma
"Il lacchè e la puttana" di Nina Berberova
Di buono c’è che letture del genere fanno passare il tempo e la noia. Sdraiata sul letto, inseguendo pigri pensieri, Tanja s’immaginava con quanta esattezza e infallibile precisione avrebbe potuto fare la stessa cosa: spararsi.
Cinismo, bramosia e male di vivere: è questo il mix letale attorno al quale ruota Il lacchè e la puttana. Racconto lungo scritto da Nina Berberova, Lakej i devka (tradotto nel 1991 in italiano per Adelphi da Donatella Sant’Elia) apparve per la prima volta nel 1937 su uno dei capisaldi editoriali della Russia oltreconfine, la rivista mensile Sovremennye Zapiski. L’agghiacciante realismo di cui è intrisa l’opera di Berberova delinea la grigia e asfissiante esistenza di Tanja, emigrata russa senza scrupoli, vedova alla deriva, sola e alle prese con problemi economici.
Pensava a cosa fare. A cosa diventare. Stava per arrivare la vita vera, bisognava prepararsi, non mancare l’occasione, non fare passi falsi. Sposarsi quanto prima? Diventare una diva dell’operetta? O fare la scrittrice, scrivere la storia della propria anima?
La giovane Madame Bovary dalle adolescenziali letture sentimentali e romantiche e dalle fantasie eleganti e altolocate si rivela, via via, una goffa arrampicatrice sociale. Dopo aver visto infrangersi le brillanti aspettative riposte nel futuro, la disperata Tanja, abulica e incapace di vivere, con i gomiti puntati al davanzale dell’esistenza, spera in una repentina risoluzione. A caccia di un cammino sgombro di ulteriori voragini dove rovinosamente cadere, priva di ideali, la giovane emigrata tentenna nell’individuare una finalità concreta a quell’esistenza che ha ormai perso la sua sfida contro la sorte.
E perché vivo io? Perché mi do tanto da fare? Cosa c’è alla fine di tutto questo?… Posso morire domani – per cosa? E come morirò? Prenderò pace. Non starò più a invidiare, a fare conti. Mi fermerò.
Sebbene l’autrice neghi qualsiasi giudizio o valutazione, Il lacchè e la puttana è un libro sarcastico e impudente pervaso di un esistenzialismo sferzante. Con estrema indulgenza, senza sovraccaricare la già di per sé difficoltosa interpretazione del mondo, la scrittrice pone al centro della curiosità della protagonista un unico concetto: il piacere. Cos’è il piacere? Ma soprattutto, v’è davvero qualcosa nella sterile esistenza di Tanja che possa essere fonte di appagamento, che le permetta di tagliare il traguardo di quella cieca e ideale corsa “alla ricerca della felicità”?
Cercare qualcosa cui non sapeva dare un nome, ma senza cui la vita a questo mondo le sembrava impossibile; qualcosa di necessario, indispensabile, un misto di ozio e sazietà fisica che nella sua lingua avrebbe potuto chiamarsi felicità parigina.
A fare da sfondo all’intenso racconto di Berberova è la Parigi dei russi bianchi: la dissoluta capitale francese del primo Novecento. Attraverso rapidi fotogrammi, immagini fulminee della realtà che la circonda, la scrittrice émigrée abbozza una monotona città parallela dai tratti vagamente russi. Una Parigi sordida, gremita di donne e uomini allo sbando che, costretti ad abbandonare la Patria, approdano in Francia nella convinzione di trovare la felicità e solcare una decisa cesura temporale nella propria esistenza.
E Tanja si ritrovò sola a Parigi, nella stanza dell’alberghetto economico dove era venuta ‘alla ricerca della felicità.
Ricorrente nelle conversazioni di Tanja è il fantasma di un “prima” in Russia, per migliaia di persone campo di battaglia di un’instancabile e consapevole lotta in difesa della fede, dello Zar e della Patria. Un “prima” improvvisamente sbriciolato e spazzato via dalla Rivoluzione cui, il più delle volte, segue un terrificante e penoso “dopo”, costruito con fatica su uno scenario di dannazione e degrado. Copertosi anche l’ultimo illusorio spiraglio di luce, per Tanja, l’unico elemento salvifico in questo inferno terreno è la ‘russicità’ con la sua fitta rete di contatti e collaborazioni.
A volte andava a trovare certe amiche, certe Nad’ka, Marusja e Tatočka, e ora l’una ora l’altra le regalavano qualcosa: un paio di calze smagliate, una borsa vecchia con lo specchietto rotto.
Uomini alla ricerca di un appiglio, di un segno o, almeno, di una promessa di vita in un presente esausto. Divengono inevitabili i giochi di potere nei rapporti che si instaurano tra i rescapés, la cui realtà precedente, lontana nel tempo e nello spazio, risulta impossibile da ricordare. Offuscato dai vapori della Storia, ma non abbastanza affinché il dolore si dissolva, rimane un passato “precario, idiota, misero” vissuto in un paradiso perduto irraggiungibile, ma pur sempre magnetico.
Dove trovare un uomo dietro cui nascondermi, un uomo che pensi a tutto, paghi tutto, che mi faccia regali, mi adori, un uomo di quelli che a volte capitano nella vita, di quelli che probabilmente capitano a tutte.
Come una calamita, la spregiudicata Tanja attira a sé Bologovskij, ex ufficiale della cavalleria zarista, incontrato casualmente nel ristorante dove l’uomo lavora come cameriere. Povero, vecchio e sempre pronto a esplodere nel pianto, Bologovskij non sembra affatto corrispondere all’ideale di Tanja che, senza neppur accorgersene, è alla ricerca di una vittima cui far scontare pene e abbandoni subiti in precedenza. Cautamente e con grande astuzia, l’autrice cela l’angoscia e l’amarezza della verità dietro le risposte ironiche dei protagonisti. Lui, ramoscello piegato dal vento dei cambiamenti, superstite alla ricerca di pace, crede di aver finalmente trovato le certezze che nel tempo aveva elemosinato. Ha la sua donna, una tregua da un’esistenza fondata sulla mortificazione e da lei, dall’amore si aspetta dell’aiuto, un po’ di sollievo.
Serrati i pugni sotto il tavolo, con un brusio nella testa e il fuoco nel cuore, la guarda, affonda nella felicità di cui lei è la causa, non ricorda più nulla, cerca di non respirare, di non sbattere le palpebre, e nella densa bruma della sua beatitudine tutto è ebbro e pulito, allegro e triste al tempo stesso.
Eppure, l’abisso tra la “puttana” e quel robot dalle lacrime metalliche e i capelli di ferro si rivela incolmabile e la chimerica corsa di Tanja alla ricerca della felicità si arresta d’improvviso. Il triste retaggio del loro passato non può che catapultarli in una pietosa convivenza, cui il risentimento nei confronti del destino e l’eccessivo rimuginare sottraggono anche l’ultimo cenno di vitalità. Non c’è nulla che possa alleviare la sorte, tantomeno l’amore. La strana coppia si consuma in un estremo gesto di disperazione, dettato dallo spettro beffardo di un futuro inesorabilmente tragico…
Ma, grazie a Dio, non c’era futuro.