“Papà” di Régis Jauffret
A cosa servirebbe rievocare il proprio padre morto una trentina di anni prima se fosse con il crudele e pretenzioso progetto di volerlo far apparire per quello che è stato? Io voglio addomesticarlo, levigarlo, sfumarlo, lucidarlo come un paio di scarpe vecchie ripescate in soffitta. Non vorrei essere costretto a condannarlo senza rimedio, a farne un padre inutilizzabile, impossibile da redimere. Ho bisogno di quest’uomo, non posso accettare di vivere senza di lui lo scampolo di vita che mi resta.
Papà è l’ultimo romanzo di Régis Jauffret, edito in Italia da Edizioni Clichy. Dopo gli avvincenti, a tratti audaci, racconti di Microfictions (di cui abbiamo scritto qui), l’autore ci accompagna in quest’intimo viaggio nelle proprie memorie più o meno recondite e più o meno reali, per consegnarci un dipinto del padre al confine fra sogno e realtà. È un evento particolare a scatenare questo bisogno di mettere a nudo non solo la propria famiglia, ma sé stesso: è il 19 settembre 2018 quando l’autore, casualmente, vede in televisione un documentario intitolato La polizia di Vichy, nel quale riconosce Alfred, il padre, mentre viene arrestato dalla Gestapo.
La visione del filmato sconvolge l’autore: mai, nemmeno alla moglie, Alfred aveva confessato nulla di tale avvenimento. Ma la reazione dell’autore non è di semplice, puro stupore: una volta aperto, il cassetto dei ricordi paterni di Jauffret si rivela colmo di sentimenti contrastanti. E così, muovendosi a ritroso, tra racconti ascoltati, fotografie ritrovate, ricordi non sempre lucidi e libere fantasie, tenta di ricostruire, attraverso frammenti che eludono ogni sequenza logica e cronologica, il suo rapporto con la figura paterna. Accanto a quest’ultima sta Madeleine, la madre, nominata in continuazione attraverso un’apostrofe inconsueta e formale, a indicarci il complesso rapporto anche nei confronti di questa figura genitoriale (per l’autore è sempre «Madeleine» e mai «mamma», nemmeno nei passaggi più intimi). Di questa madre silenziosa e tenace Jauffret racconta accadimenti estremamente personali senza censurarsi, narrandoci ad esempio l’enorme fatica sopportata dalla donna, sposatasi non più giovane, per avere un figlio. Ed è in questa tenacità, dipinta con tratti secchi, diretti, talvolta ironici, dei genitori che Jauffret lascia trasparire un ringraziamento di fondo, una sorta di sottilissimo, celato filo conduttore delle proprie pagine di profondo riconoscimento e nostalgia nei confronti di Alfred e Madeleine.
Nel suo viaggio in un passato incerto e indefinito dunque, l’autore sembra essere motivato, dal desiderio di un approfondire un certo avvenimento, cioè l’arresto del padre, e di indagarne possibili cause e conseguenze. Tuttavia, pagina dopo pagina, emerge il lacerante bisogno di colmare un vuoto che non ha mai abbandonato l’autore: «Non si può avercela con qualcuno perché non è esistito. Alfred non esisteva molto, esisteva appena. Un merletto di papà, qualche filo intorno ai vuoti, alle mancanze, alle assenze, intorno alla delusione di non trovare nessuno invece di qualcuno».
La sordità del padre, uno dei pilastri attorno alla quale ruotano aneddoti il cui umorismo oscilla tra leggera ironia e grottesco cinismo, diviene per l’autore metafora di un rapporto basato sul silenzio, sulla lontananza, su un’incomunicabilità di fondo scalfita solo per brevi attimi. Attimi che diventano vitali per l’autore, che è dunque costretto a ricorrere alla propria fantasia per moltiplicarli, inquadrarli, e riuscire a colmarne la mancanza. Non è, tuttavia, un desiderio di mentire, di orgoglio, a spingere a questi innocenti edificanti fantasie, quanto un ben più primordiale, umano bisogno di colmare un’assenza genitoriale tanto profonda.
“Alfred, eri un eroe”. Dichiaro che quel video ne è la prova. Hai contribuito a liberare la Francia dal nazismo. Hai portato le tue prodezze nella tomba. Affermo, giuro, di essere stato testimone della visita di Charles de Gaulle la mattina del 10 novembre 1961. Andandosene ha perfino sfiorato la mia guancia con la punta delle dita mormorando Tuo padre è un uomo coraggioso. Sarà la sola bugia di questo libro. Vi supplico comunque di crederlo e di ammettere una volta per tutte la grandezza di Alfred.
La finzione è per Jauffret indispensabile, vitale, per poter ripensare e meglio comprendere quel mistero insondabile rappresentato dal padre. Nella prosa tagliente, asciutta e sincera emergono rabbia e dolore del bambino affamato di amore, ma anche il distacco, lo sguardo ironico e spesso critico del figlio cresciuto, e pure l’incolmabile nostalgia di un uomo che ormai non può che convivere con dubbi e domande a cui nessuno mai darà risposta.
In Papà la scrittura diventa antidoto contro l’oblio e, soprattutto, forma essa stessa di conciliazione con sé stessi: nell’immergersi in queste pagine il lettore si sente travolto e quasi soffocato dal flusso di ricordi e giudizi espressi talvolta violentemente dall’autore, quasi a volersi liberare di un ormai insostenibile peso interiore. Una sincerità disarmante, che nonostante la ruvidità raggiunta in alcuni passaggi («uno di quei ricordi di felicità che ti danno un motivo per non entrare in un’armeria a comprare qualcosa per spararti in testa»), lascia trasparire una nota dolceamara di fondo, quasi un grido al limite fra liberazione e disperazione, un appello a un padre sordo in vita e ormai non più presente ad ascoltare le parole d’affetto e stima del figlio.
Sincero, disarmante, dolceamaro: un romanzo che è un viaggio fra ricordi e sogni, e che narra di un bisogno viscerale di riconciliazione con le proprie origini, implacabile se non attraverso la messa a nudo di sé, e forse in larga misura grazie anche alla forza della scrittura. Un romanzo che consiglierei a un lettore sensibile alle più impercettibili sfumature d’animo, in grado di rivelarci quei piccoli segreti che un uomo può portarsi dentro per tutta la vita.