“La casa delle madri” di Daniele Petruccioli – una recensione e qualche domanda all’autore
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo
Se agli occhi dei vivi le case possono sembrare qualcosa di solido, con una topografia ben chiara, i morti sanno invece riconoscere la sovrapposizione tra spigoli e vani, vedono i diversi momenti accatastarsi nello spazio in modo insensato e sempre uguale, a nascondere le storie del passato per paura della loro schiacciante preponderanza.
Il respiro di una casa racchiude un’esistenza: vite di intere generazioni pulsano nel labirinto dei lunghi corridoi che ancora trattengono l’eco di passi bambini; i mobili accatastati in soffitta custodiscono la polvere del tempo, assieme a una nostalgia innominabile; tra una cucina troppo grande, un bagno, un armadio e uno sgabuzzino si nascondono tracce di memorie.
Ogni casa è una storia – o più storie, a seconda del numero di persone che l’hanno abitata. Le mura sono impregnate di morte e di vita, hanno assistito impassibili a nascite e funerali, assorbendo negli anni un poco di umidità che rilasciano in grandi macchie opache sul soffitto, quasi delle lacrime invisibili, segni del tempo e della vecchiaia. Perché anche le case invecchiano, hanno rughe, necessitano di essere demolite o restaurate.
Proprio dal restauro di un’antica abitazione prende avvio il romanzo di Daniele Petruccioli, La casa delle madri, uscito per la casa editrice pugliese TerraRossa Edizioni.
Dalla sua nascita TerraRossa si distingue per la pubblicazione di opere caratterizzate da una ricerca stilistica originale inseguendo un’idea di letteratura capace di sondare le infinite possibilità del linguaggio e dell’invenzione; il romanzo d’esordio del traduttore romano si inserisce perfettamente nel solco tracciato spiccando per audacia stilistica e narrativa.
Petruccioli si era già distinto nel panorama editoriale come traduttore di grandi classici della letteratura portoghese – nel 2010 vinse il premio Luciano Bianciardi per la traduzione della fiaba epistolare Lettere di Mark Dunn (Voland, 2008).
Ma nessuno conosceva il romanziere, che attraverso La casa delle madri rivela un lato inedito e sorprendente: con uno stile quasi proustiano – frasi lunghe, subordinate che si susseguono e intrecciano, incisi e parentesi che danno movimento alla narrazione – compone un romanzo dai tratti novecenteschi che raccontando la storia di una casa – e delle generazioni che vi hanno abitato – si traduce in una straordinaria riflessione sulla vita.
Perché ne La casa delle madri c’è tutto: nascita, lutto, malattia, dolore, passione, invidia, rabbia e persino risentimento. Ciascuno di questi aspetti viene raccontato con forte introspezione da parte di un narratore onnisciente, che dei personaggi conosce ogni singolo stato d’animo ed è in grado di sondare le coscienze e sviscerare i pensieri. A ogni capitolo si alterna un nuovo stadio della casa in ristrutturazione: mentre ripercorriamo la storia di questa grande famiglia, negli spazi vuoti dell’antica abitazione si riverbera l’eco della memoria. Un grande pregio della narrazione di Petruccioli è senz’altro da attribuire alla perfetta rappresentazione della casa – luogo dei ricordi, degli affetti, nido e veleno al tempo stesso –, raffigurata come un essere a sé stante. Impossibile non cogliere in queste affascinanti descrizioni di un’abitazione disabitata il richiamo letterario a un libro cardine della letteratura del Novecento, Gita al faro di Virginia Woolf (che, certamente non a caso, viene nominata più volte nel corso del romanzo).
La casa non si appartiene, né appartiene a chi l’ha costruita attorno a sé; appartiene, come sempre, in parte alle memorie che la abitano (anche inconsapevolmente, da chi ci vive in carne ed ossa), in parte alle esperienze che la abiteranno (e di cui gli spazi – segretamente – recano già le tracce).
Un alito di vento che scuote le imposte riecheggia tra le stanze vuote del salone come un sospiro; in questa personificazione della casa – le sezioni ad essa dedicate sono le più liriche e intense – si avverte l’influenza della seconda parte di Gita al faro, quel meraviglioso intermezzo letterario intitolato Il tempo passa nel quale Woolf descrive l’assenza come una cosa tangibile.
Sulla stessa scia del capolavoro woolfiano anche nel libro di Petruccioli i capitoli dedicati alla casa appaiono come ampie parentesi tonde che svolgono una funzione di raccordo all’interno del testo: assistiamo così allo scorrere del tempo nell’immobilità delle pareti della vecchia casa, dove a scandire il movimento sono solo il rosicchiare dei topi e il cigolio delle tubature arrugginite.
La casa svolge, dunque, un ruolo essenziale e metaforico: è attraversata dal flusso inarrestabile degli eventi e, una volta abbandonata, sembra dare conto del mistero della condizione umana. Il topos della casa appare come un pretesto per parlare di un agente astratto e invisibile che tuttavia agisce in modo irreparabile: il tempo. Petruccioli cela il nucleo della propria storia tra le righe, – mentre in apparenza non accade nulla, in realtà accade tutto.
«È il luogo che ci abita, non noi ad abitarlo» sembra sostenere l’autore mettendo a punto, pennellata dopo pennellata, il ritratto di questa famiglia infelice, disfunzionale, che si ama troppo o troppo poco. Scriveva Tolstoj nell’intramontabile incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Proprio nelle difficili relazioni familiari fra Sarabanda, Speedy e i gemelli Ernesto ed Elia si annida il fulcro della narrazione che scorre come un fiume in piena travolgendo il lettore con l’impeto di sentimenti contrastanti.
In principio le grida dei bambini che corrono risuonano per tutta la casa.
È il giorno del funerale del notaio, capostipite della grande famiglia, ma la madre dei gemelli, Sarabanda, decide comunque di non rinunciare a una festicciola di compleanno per i suoi piccoli che necessitano di un attimo di svago dopo l’atmosfera opprimente di quei giorni cupi. Viene così introdotto il personaggio di Sarabanda, «una donna molto decisa, molto amata e molto disapprovata», che si batte sola contro il mondo; è lei a incarnare l’unità della famiglia, il punto cardine.
I personaggi pulsano di carne e sangue, sono estremamente vivi e reali nei loro sentimenti e pensieri: su tutti Sarabanda, dotata di forte personalità e decisa ad emanciparsi da un’educazione patriarcale. Il suo amore per i figli condizionerà tutta la loro vita futura.
I gemelli Ernesto ed Elia sono legati a lei con duplice affetto, con diverso distacco, con un attaccamento a volte esigente ed altre refrattario. Questa donna affettivamente timida, non religiosa, anarchica ed amante della letteratura ci commuoverà fino allo stremo, soprattutto nelle pagine intensissime dedicate alla malattia che la colpirà prima del compimento del suo cinquantesimo anno. A fare da contraltare alla personalità dominante di Sarabanda c’è Speedy – il padre in fuga – incapace di assumersi vere responsabilità e di accudire i figli, sopraffatto in particolar modo dalla malattia di Ernesto di cui si ritiene, inconsciamente, colpevole. E infine, ecco i gemelli Ernesto ed Elia: bambini, adolescenti, poi uomini fatti, che vivono come due rette parallele senza mai riuscire a incontrarsi davvero.
Ernesto ed Elia, piccolissimi, si erano ritrovati inseriti in un meccanismo dispari di identità e separazione che, da una parte, li sopraffaceva ma dall’altra acuiva il loro bisogno uno dell’altro.
La mitologia, fin dall’antica Grecia, pone i gemelli in una posizione di rivalità. Uno tra gli elementi più diffusi, dai tempi delle narrazioni orali, è la contrapposizione dei loro caratteri: uno è il bene, l’altro è il male; uno è forte, l’altro e debole. Ernesto ed Elia non sono da meno: uno sano, l’altro malato. E sarà proprio la malattia di Ernesto, la sua incurabile infermità, ad aleggiare come uno stigma sull’intera famiglia, a determinare in qualche modo l’allontanamento di Speedy e l’autoritarismo di Sarabanda. Il padre vuole che il figlio menomato si risparmi dalle umiliazioni che la società potrebbe infliggergli; mentre la madre si batte perché il figlio non percepisca la propria invalidità come un ostacolo.
Il discorso sulla malattia è una delle tematiche più forti e strazianti del romanzo di Petruccioli; percepiamo l’impotenza di Ernesto bambino, che scopre i propri limiti nel continuo confronto con il fratello, e allo stesso tempo avvertiamo il dramma vissuto da Elia che, di fronte alle continue allusioni di nonni e genitori alla forza d’animo del gemello, non può fare a meno di domandarsi: «Dunque essere sani è peccato?».
La linea invisibile tra diversità e normalità funge da spartiacque tra i gemelli, la differenza cruciale nello sviluppo dei loro caratteri: nel primo si anniderà una rabbia cupa, nel secondo una malinconia interiore che troverà espressione attraverso il talento artistico.
Dei moderni Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, Eteocle e Polinice: Ernesto ed Elia seguono la stessa parabola – ma soltanto a livello introspettivo – senza giungere alla reciproca distruzione. Sono due bambini schiacciati dalla paura di non essere uno; nati insieme, ma perennemente incompleti. Si combattono, si fanno la guerra, si allontanano reciprocamente, eppure non sono in grado di esistere l’uno senza l’altro.
Petruccioli è bravissimo nel ritrarre i contrastanti moti del cuore, le sfumature sottili che separano l’amore dalla gelosia, il rancore dall’odio, sentimenti che avviluppano i quattro protagonisti in una rete drammatica e conturbante. Attraverso l’uso sapiente delle parole, l’autore ci consegna un’analisi magnifica della psiche – da intendere nel senso più originario di “anima”. Raccontando la storia di una casa e di coloro che l’hanno abitata compone una vera e propria mitologia.
Leggendo non possiamo fare a meno di proiettare quell’occhio acuto, introspettivo, profondo all’interno delle nostre vite e considerare con uno sguardo diverso quanto ci circonda.
Un’intera topografia umana è nascosta nell’architettura – apparentemente stabile – dei luoghi in cui abbiamo vissuto.
La casa delle madri è un romanzo intenso, che sembra racchiudere il respiro di un’intera vita. Dà l’idea di essere una storia custodita per anni, pensata, cullata e infine portata su carta. Quando è nata l’idea di scrivere il libro e quanto è stata lunga la sua gestazione?
Ho deciso di scriverlo una decina di anni fa, nell’intento di buttar giù una cosa senza minimamente preoccuparmi né di una sua possibile pubblicazione – cosa a cui in effetti non penso mai, non per spocchia ma perché c’è un sacco di gente più brava di me che non viene o fa fatica a essere pubblicata, quindi non vedo perché dovrei aspettarmelo proprio io – ma nemmeno di un eventuale lettore: qualcosa di così intimo e mio, nella trama ma soprattutto nel linguaggio, da poter tranquillamente risultare illeggibile. Per una volta, ho pensato, perché non scrivere solo ed esclusivamente per me? La prima versione l’ho tirata giù in circa sei mesi, forse qualcosa di meno, ed era lunga il doppio rispetto al libro pubblicato. Poi, come sempre faccio per ogni cosa che scrivo ma cambiando destinatari, l’ho mandata a pochissimi amici a cui quella cosa specifica mi faceva pensare – giusto per avere un parere esterno – tra i quali stavolta c’era Giuseppe Girimonti Greco (uno dei miei colleghi secondo me più attenti, colti e feroci verso l’uso della lingua) che se n’è inopinatamente innamorato e l’ha dato in lettura a un paio di editori, i quali hanno manifestato a loro volta – di nuovo per me del tutto inopinatamente – un certo interesse. A quel punto ho deciso di rimetterci le mani in maniera decisa, togliendo completamente due o tre linee narrative, abbreviandone altre e spostando diversi capitoli. Ci sono voluti un paio di mesi. Nel frattempo lo aveva letto anche Giovanni Turi di TerraRossa, che ha fatto una cosa così generosa e inusuale da lasciarmi di stucco: mi ha telefonato dicendomi “Ti mando un contratto”. Perciò, dopo averne parlato meglio ed esserci messi d’accordo sui dettagli (sono un noto rompipalle quanto a contratti), gli ho chiesto ancora un mesetto per rilavorarci e mandargli un taglio su cui fare l’editing insieme. Ci sono volute forse tre settimane. L’editing con TerraRossa è durato poi ancora un paio di mesi. Quindi in tutto poco meno di un anno, direi, spalmato però su quasi un decennio.
Nel romanzo, in particolare nelle bellissime e particolareggiate descrizioni della casa, si percepisce un’eco di Gita al faro di Virginia Woolf, un’autrice tra l’altro da lei citata spesso nel corso della narrazione. Di quali autori ha percepito maggiormente l’influenza durante il processo di scrittura?
Grazie per la generosità, davvero, ma non scherziamo. Non ho la benché minima presunzione di paragonarmi a una gigante come Woolf (né agli altri autori, romanzieri e saggisti, citati nel romanzo: servono a dare un retroterra culturale ai vari personaggi, non ho nessuna velleità di avvicinarmici nemmeno lontanamente). In realtà, come dicevo prima, stavolta ho cercato di non imitare nessuno. Io faccio il traduttore, imitare gli stili è il mio mestiere, ma stavolta ero ben deciso a provare a non farlo (che poi ci sia riuscito è un altro paio di maniche). Questa scelta ovviamente non è neutra, si richiama a un certo modo modernista (a volte addirittura decadentista) di considerare l’io – nella sua lettura parla di un narratore onnisciente ed è tanto vero che a volte trascolora quasi in un io lirico –, così centrale che anche i riferimenti storici e il lavoro sul linguaggio sono funzionali più a lui che a un ipotetico lettore modello. Gli stessi argomenti sono anche un po’ i rimproveri che si possono muovere a questo libro, che non cerca affatto di conquistare il lettore. Piuttosto va alla ricerca di un lettore che sia un po’ come lui.
A un certo punto il lettore si imbatte in una scena inaspettata: la descrizione di un ménage à trois che coinvolge Elia e due amici. Lei ha descritto il tutto sempre con grande profondità, il risultato è poetico e quasi struggente: tuttavia, non le ha causato imbarazzo scrivere questa parte? Non ha temuto, neanche per un istante, che potesse rovinare l’equilibrio del romanzo o portarle delle critiche?
No, nessun imbarazzo. Il sesso fa parte di qualunque Bildung, è una zona impossibile da tralasciare quando si racconta un momento di crescita. E poi dal sesso nasce l’amore, come si fa a parlare d’amore senza sesso (almeno in quest’epoca storica – e per fortuna, vuol dire che siamo un po’ meno repressivi di trent’anni fa)? Anzi, nella versione “lunga” del romanzo, che aveva parti anche molto più buie ma altre decisamente più luminose di questo che è stato poi pubblicato, di sesso ce n’era molto di più. Il dubbio è stato piuttosto se fosse o meno il caso, in questa versione più “ctonia”, per così dire, di lasciare una scena tutto sommato in apertura, luminosa, appunto. Ma poi ho deciso di sì, perché mi serviva per dare, almeno a uno dei gemelli, almeno un’ipotesi di via d’uscita dalla soffocante coppia oppositiva in cui si ritrovano prigionieri lungo tutto lo svolgersi della narrazione: se ho descritto un ménage à trois non è per scandalizzare, ma perché l’unica cosa che può spezzare il due (ce l’ha insegnato, meravigliosamente, Queneau nella sua Piccola cosmogonia portatile) è il suo fornicare con l’uno così da far nascere il tre…
La complementarietà/dualità tra i gemelli è complessa, e rappresenta il perno dell’intera narrazione. Ernesto ed Elia ricordano un poco i gemelli di La Trilogia della città di K di Agota Kristof. In quanto autore, cosa voleva che emergesse dall’ostinata contrapposizione tra i due gemelli?
Magari ricordassero i gemelli della Trilogia, ma in realtà sospetto che siano l’opposto: i gemelli di Kristof sono un monolite, un blocco di volontà anche nelle loro differenze, la forza razionale per antonomasia, un monumento articolato ma non meno unito, tanto che in loro la separazione – che non a caso avviene sul finale del primo dei tre romanzi – è uno strappo consensuale che serve a rendere possibile la scoperta del resto del mondo. Ernesto e Elia, per me, sono invece il massimo dell’indecisione, dell’irrazionalità, dell’incapacità di gestire la loro coppia gemellare, di gestirsi al suo interno e di gestirsi in quanto metà di un tutto rispetto a quell’altro tutto che per un gemello è il mondo (almeno per come la vedo io). Non volevo che rappresentassero nient’altro se non una fortissima tensione opposta a somma zero, un’incapacità di emancipazione sempre ricercata unita all’incapacità uguale e contraria di unità, altrettanto sempre rifuggita. Non riescono a esistere né insieme né separati. Se dovessi trovare un correlativo oggettivo, direi I prigioni di Michelangelo.