“Vita dell’arciprete Avvakum scritta da lui stesso”
ritorno alle origini
Ogni destino è connesso a quello del prossimo, ogni nostra azione è una risposta a un fatto precedente già accaduto. Causa-effetto, in un’eterna danza che non avrà mai fine (tratto da Dark, serie TV tedesca diretta da Baran bo Odar).
Ciò che avviene in quella che oggi chiamiamo letteratura russa ha radici ben più profonde e consolidate di quanto si creda, innestate nel terreno socio-culturale e, soprattutto, spirituale di un’epoca, benché remota, per nulla distante dalla nostra. Il passato non è poi così estraneo al presente e anzi lo implica in un gioco di rimandi e di ritorni. Va da sé, allora, che la comprensione del mondo russo, vale a dire di quell’insieme di valori riconducibili alla ‘russicità’, appaia inaccessibile se del tutto distaccata da un’analisi del “sottosuolo”, termine – tra l’altro – molto caro alla cultura russa, grazie alle celebri Memorie del sottosuolo di Dostoevskij fino all’Andegraund (‘Underground’) della letteratura di fine Novecento. Vale sempre la pena, quindi, fare un passo indietro e tornare agli albori di una letteratura così ricca e complessa, intrisa dei riferimenti più disparati.
Ecco il XVII secolo moscovita, a forti tinte, variegato, ora lontano e ora così simile al XX!.
Così Pia Pera condensa i meccanismi che occupano lo sfondo delle vicende raccontate dall’autobiografica voce narrante di quella che, a buon diritto, può essere considerata la Divina Commedia russa, ossia la Vita dell’arciprete Avvakum scritta da lui stesso (Žitie protopopa Avvakuma, im samim napisannoe) pubblicata in traduzione italiana per Adelphi nel 1986.
Ecco dunque, figli miei nella Chiesa, vi offro la mia vita dalla giovinezza fino all’età di cinquantacinque anni. Anche l’abate Doroteo descrisse la sua vita ai discepoli per costringerli a imitarlo […]. E anch’io, confermando il vostro amore in Gesù Cristo, nostro Signore, vi racconto di quanto è stato fatto da me, schiavo indegno di Dio, nello Spirito Santo col Padre e il Figlio. Grazie a Dio nei secoli.
La cornice storica da cui quest’opera prende le mosse è, allo stesso tempo, testo e contesto: background e co-protagonista imprescindibile della vita del religioso Avvakum. D’altra parte, il XVII secolo sorge in Russia su una società segnata da una forte defocalizzazione sul piano governativo e dalla mancanza di fiducia nella stabilità conquistata – a fatica – negli anni. Stiamo parlando del cosiddetto “periodo dei Torbidi” (1598-1613), ovvero di falsi eredi al trono, pretendenti senza diritto che per quanto poi smascherati gettarono il popolo russo, già colpito da una drammatica carestia, in una profonda incertezza derivata dall’impostura e ancor più dall’assenza di una vera guida. Persino l’unico punto di riferimento rappresentato dalla Chiesa ortodossa, il cui legame con la popolazione era rimasto indissolubile, incominciò allora a vacillare. Via via iniziarono ad avvertirsi le prime avvisaglie di un radicale cambiamento: lo scisma (in russo raskol’) e la condanna dei Vecchi credenti, sostenitori della tradizionale spiritualità russa e oppositori delle riforme introdotte dal Patriarca Nikon, desideroso di un patriarcato tanto forte da poter diventare guida dell’Ortodossia su scala mondiale, nonché convinto fautore della necessità di adattare le pratiche ecclesiastiche ai testi greci. Tutto ciò non ebbe solamente un forte impatto sulle Scritture ma portò a cambiamenti radicali anche nella quotidianità dei fedeli, al punto che, d’improvviso, i russi si trovarono costretti a correggere anche quei gesti più radicati e quotidiani, come il segno della croce.
Ecco cosa scrisse Nikon nel suo biglietto: “Anno tale e giorno tale. Secondo le tradizioni dei Santi Padri e degli Apostoli è soltanto dalla vita che bisogna inchinarsi in chiesa, e non prosternarsi con ginocchia braccia e viso per terra; inoltre bisogna che facciate con tre dita il segno di croce”.
Capo degli scismatici, Avvakum si presenta come personaggio chiave di un periodo estremamente complesso. Il protopope rievoca i momenti più importanti di una vita monastica, austera – la propria e quella dei Vecchi credenti –, deputata a viaggi lunghissimi nella natura selvaggia, esili e condanne, fino alla sentenza del 14 aprile 1682, quando l’arciprete venne bruciato sul rogo a seguito dell’inasprimento delle persecuzioni contro gli oppositori delle nuove riforme.
Poi mi mandarono in esilio in Siberia con moglie e figli. Ce ne sarebbe da raccontare di tutte le privazioni sofferte per via, basterà ricordarne soltanto alcune. L’arcipretessa partorì un bambino, ancora sofferente la misero sul carretto, e giù tira! Fino a Tobol’sk ci sono tremila verste, ci trascinammo per tredici settimane sul carro via terra e per via d’acqua e anche con le slitte per metà del cammino.
Scritta per adempiere alle volontà di Epifanij affinché le opere commesse da Avvakum non cadessero nell’oblio, l’autobiografia del protopope è testimonianza diretta di un’epoca in continua trasformazione, dal punto di vista sia cultuale che sociale. Quella che venne a crearsi durante il XVII secolo fu una spaccatura, un’insanabile ferita all’interno della società, tra un’aristocrazia sempre più protesa verso l’Occidente e un popolo fermo, fedele alle usanze, di cui Avvakum si fece rappresentante. Avvicinarsi al mondo greco significava, infatti, allontanarsi dalla tradizione antico-russa e dalla concezione ascetica della vita per abbandonarsi a un materialismo ‘occidentaleggiante’. Nell’introduzione alla Vita Pia Pera sottolinea, di fatto, che «l’arroganza e la vanità dei greci veniva da loro» – ossia dal protopope e dai suoi compagni – «contrapposta alla pia umiltà dei russi».
Arrivammo poi nelle città russe e compresi che nella Chiesa non andava bene niente, le cose si guastavano sempre di più. Rattristato stavo seduto a riflettere: cosa devo fare? Predicare la parola di Dio, o nascondermi da qualche parte?.
Benché la struttura dell’opera si accosti al genere religioso dell’agiografia, nel raccontare la propria biografia l’arciprete si spinge ben oltre i limiti da cui la civiltà letteraria russa era stata fino ad allora circoscritta e spalanca le porte a innovazione e freschezza. In effetti, la lingua di cui Avvakum si serve è vivace, concreta, espressiva, un’originale fusione tra parlato e slavo-ecclesiastico (quest’ultimo, idioma del culto ortodosso in Russia, era a tutti gli effetti la lingua della letteratura, dal momento che la produzione artistica di quell’epoca dipendeva strettamente dalla sfera religiosa).
La mia vita scritta con la mano mia peccatrice da me, l’arciprete Avvakum, e se qualcosa vi è detto alla buona, ebbene, voi che leggete o ascoltate non disprezzate, per l’amore del Signore, il nostro volgare, perché io amo la mia lingua russa materna, non uso adornare il mio discorso di versi filosofici, poiché Dio non ascolta le belle parole, ma son le nostre opere che vuole.
Nonostante sia stata pubblicata soltanto nel 1861 sulle pagine di Letopisi russkoj literatury i drevnostej, la Vita dell’arciprete Avvakum scritta da lui stesso si presenta come vero capolavoro di una letteratura che incominciava pian piano a prendere forma, per cui Avvakum si staglia quale – ricorriamo nuovamente alle parole di Pia Pera – «uno dei suoi massimi artefici».