Uno spettro si aggira per il Giappone
"Racconti di pioggia e di luna" di Ueda Akinari
In una notte della tarda primavera del quinto anno dell’era Meiwa, finisco di scrivere quest’opera accanto alla mia finestra, mentre, cessata la pioggia, è apparsa la luna appena velata; perciò, nell’affidarla al tipografo, la intitolo Racconti di pioggia e di luna (Ugetsu monogatari).
Con queste parole, Ueda Akinari (1734-1809) presentava nel 1768 una raccolta di racconti fantastici che, già dal titolo, si inseriva in una precisa tradizione letteraria, come un’opera di pregio: se per la tradizione cinese pioggia e luna erano da sempre, infatti, simbolicamente associate al soprannaturale e all’apparizione di spiriti e fantasmi, il termine monogatari era un chiaro riferimento al genere classico della grande tradizione dell’epoca Heian e al suo capolavoro, il Genji monogatari di Murasaki Shikibu.
Figlio adottivo di mercanti, Akinari nacque e visse ad Osaka, in epoca Tokugawa (1603-1867) centro principale della vita economica e culturale del Giappone. Le sue due prime raccolte di racconti – Scimmie di questo mondo che hanno orecchio per tutte le arti e Caratteri di concubine di questo mondo – contenevano già in nuce rimandi al soprannaturale e risentivano soprattutto dell’ideale culturale del tempo, quello del cosiddetto “mondo fluttuante” (ukiyo) e del corrispettivo genere letterario, l’ukyozoshi, che permeerà tutta la produzione dello scrittore. Asai Ryōi, un autore coevo, lo descrive così:
Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sakè, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua: questo, io chiamo ukiyo.
Akinari, mercante e medico, era un buon conoscitore sia della cultura cinese che del patrimonio giapponese classico. Diede vita a un genere nuovo, destinato a imporsi presto sia a Osaka che a Edo, a cui anche autori di diversi secoli dopo, come Haruki Murakami, si ispireranno esplicitamente.
Su una solida base di riferimenti e personaggi storici lo scrittore elabora infatti un intreccio originale di fantasia e cronaca, leggenda e fiaba, in una sintesi già tendenzialmente moderna e fuori dai rigidi schemi tradizionali, la cui massima espressione è appunto la raccolta di racconti in questione. Nell’Ugetsu monogatari il soggetto di demoni e fantasmi, molto rappresentato nella letteratura, nel folklore e nel teatro giapponesi, e nella lunga e parallela tradizione popolare cinese di epoca Ming, viene passato al vaglio di uno stile innovativo e moderno, fatto di anticipazioni e allusioni, attraverso il quale Akinari rende tutta l’ambiguità del genere fantastico.
Nella prefazione, l’autore si rifà alla tradizione senza però accettarla così com’è: con giocosa ironia, menziona il mito secondo cui molti scrittori antichi sarebbero stati puniti per aver narrato cose non vere. E tuttavia puntualizza subito che:
Se guardiamo la loro prosa, scopriamo che, creando forme rare in ogni particolare, avvicinandosi alla realtà in un’alternanza di silenzio e espressione, con toni ora alti ora bassi e sinuosi, essa fa echeggiare corde nascoste nell’animo del lettore.
Per questo, continua, vuole riportare alcune «futili storielle» che gli sono capitate tra le mani, guardandosi bene però da spacciarle per reali: non sia mai che i suoi discendenti vengano puniti per il suo «misfatto».
I nove racconti sono ambientati per la maggior parte tra il X e il XVII secolo, periodo di guerre civili che diventa spesso uno snodo centrale delle narrazioni. Come protagonisti, non a caso, troviamo di frequente personaggi storici, tornati sulla terra in forma di spirito, spinti da passioni e da rivalse non ancora estinte: uno dei cardini della raccolta è il fatto che le azioni dei personaggi, umani e no, siano mossi proprio da questo sentimento di vendetta.
Una volta smarritosi nel labirinto della passione, vittima della cieca fiamma del desiderio, è diventato un demone proprio per la sua natura ostinata e pervicace. “Se lasci libere le passioni diventerai un mostro, se le controlli otterrai la perfezione del Buddha” si dice.
Un esempio paradigmatico è il racconto che apre la raccolta, Shiramine. Tra echi letterari e ritmi narrativi ripresi dal teatro Nō, assistiamo all’apparizione dell’imperatore Sutoku, il quale, descritto in modo particolarmente vivido e intenso, si mostra al monaco Saigyō (anch’egli figura storicamente esistita) per rivelare i motivi dell’impulso vendicativo che non lo abbandona nemmeno dopo la morte, e che si riverbera nelle discordie tra i suoi successori.
In quel momento la valle e il monte furono scossi da un brivido e il vento, come se volesse abbattere il bosco, sollevò nel cielo vortici di polvere. A vista d’occhio, una sfera di fuoco divampò ai piedi di Sua Maestà illuminando a giorno la montagna e le valli. Guardai attento la figura dell’imperatore al centro delle fiamme e vidi il suo volto assumere la stessa tinta del fuoco, i capelli scarmigliati lunghi fino alle ginocchia, gli occhi stravolti da un freddo odio, mentre respirava affannosamente. La sua veste arancione era coperta di polvere, le unghie delle mani e dei piedi come artigli di un animale selvatico, la sua figura terrificante e orribile proprio come quella di un demone.
In altri racconti la natura fantasmatica delle creature si manifesta solo in un secondo momento, e Akinari tiene fino all’ultimo lettore e personaggi sulle spine. È ciò che accade ad esempio in Appuntamento dei crisantemi, ripresa di un’antica leggenda cinese e raffinata celebrazione dei valori di amicizia e lealtà, o in Casa fra gli sterpi, dove una novella Penelope giapponese attende invano il ritorno del marito, fino a tramutarsi in spirito e infestare, assumendo sembianze umane, i ruderi della loro vecchia casa.
Le variazioni sul tema non si esauriscono qui, e l’autore si diverte a riversare nell’opera la sua vasta erudizione e la sua curiosità intellettuale, fondendo e rielaborando generi e soggetti ripresi dalle fonti più disparate. Si immerge senza timore anche nelle acque del meraviglioso, e se in La carpa del sogno crea un gioco di specchi tra realtà e sogno, arte e magia, in Dibattito su ricchezza e povertà sperimenta persino il modello del dialogo filosofico-morale. Tra lo spirito dell’oro e un samurai imbastisce infatti una discussione che assume le vesti di una lezione di economia e, attraverso la stringente logica dell’essere soprannaturale, propone una visione del denaro e dell’attività mercantile moderna e concreta, ben oltre la classica concezione confuciana del destino e quella buddista del karma:
Sappi che la ricchezza si accumula dove la gente tratta il denaro con rispetto, perché l’oro ha uno spirito ma diverso da quello dell’uomo. […] Resta il fatto che la via della ricchezza è un’arte: l’uomo abile diventerà ricco mentre chi non lo è perderà i propri beni più facilmente di quanto una tegola si spezzi.
Passando da abati antropofagi a mogli gelose accecate dalla vendetta e spiriti di cancellieri che amano apparire nei pressi dei santuari solo per discettare di poesia, Akinari non ha remore anche nel capovolgere gli stilemi classici dei racconti fantastici orientali: La passione del serpente è infatti un raffinato divertissement – colmo di allusioni alla tradizione cinese e giapponese e costellato di riferimenti poetici –, sul mito dell’animale che si fa donna per ingannare l’uomo. Qui la metamorfosi del serpente avviene, al contrario, per amore, ma il sentimento è così assoluto e violento da portare comunque a distruzione certa.
Pur in un tale affascinante e composito ventaglio di variazioni sul tema, ciò che emerge comunque è una luminosa coerenza stilistica: qualsiasi sia lo spirito o il demone evocato, mai il brivido dell’orrore è separato dall’emozione della bellezza.
Non sono elementi tenebrosi neanche i paesaggi, spesso fatti di case abbandonate o luoghi isolati, le atmosfere evocate e il costante riferimento alla luna e la pioggia: la tonalità permanente rimane una malinconia decisamente più nipponica, il senso di rassegnazione e la percezione chiara della fugacità dell’esistenza.
Va reso merito all’edizione italiana (Marsilio, 1988) che presenta una veste attenta ai dettagli e un testo filologicamente accurato, intarsiato da affascinanti tavole risalenti all’edizione xilografica del 1776. Il volume è curato e tradotto da Maria Teresa Orsi – autrice anche della brillante e approfondita prefazione –, che, con scelte linguistiche precise, ci ripropone un testo dal taglio asciutto, che mantiene intatta tutta la sua limpidezza.
Racconti di pioggia e di luna può dunque essere a buon diritto definito come il prezioso dono di uno dei più originali e raffinati rappresentanti della cultura giapponese premoderna che, con grazia e maestria, ha saputo fondere gli elementi più macabri del fantastico con la tradizione letteraria classica.