“Storia di un tagliabambù”

dieci secoli e non sentirli

“Storia di un tagliabambù”

Di datazione incerta e di autore anonimo – probabilmente un intellettuale vicino alla corte –, Storia di un tagliabambù (Taketori no okina no monogatari, Marsilio, 2001, traduzione di Adriana Boscaro), sebbene poco nota, è una delle eredità letterarie più vivide del Giappone di epoca Fujiwara (X-XI secolo). Il breve racconto è difatti il più antico monogatari (genere che spazia dal romanzo alle cronache semi-storiche) a noi giunto, e, pur ricalcando il tradizionale schema della fiaba della bambina “vegetale” trovata da un’anziana coppia senza figli (lo stesso del mito di Momotarō o di Uguishime), dimostra una modernità e un realismo che vanno ben oltre le figure archetipiche caratteristiche di queste storie.

La narrazione si apre con il personaggio che, pur non essendo il protagonista, dà il titolo all’opera: intento al suo lavoro, viene improvvisamente attratto da uno strano bagliore proveniente da una piccola creatura femminile nascosta in un tronco di bambù; il vecchio la raccoglie e la porta a casa dalla moglie, dove decidono di allevarla come una figlia. Il nome scelto per l’esserino luminoso è Nayotake no Kaguyahime, che rimanda contemporaneamente al bambù che si flette con eleganza (Nayotake), alla brillantezza che la piccola emana (Kagu) e alle sue origini probabilmente reali (Hime sta per principessa). Come ricompensa, la fanciulla (che, ci viene preannunciato, non è di questo mondo), fa sì che la sua famiglia si arricchisca grazie alritrovamento di oro nella cavità dei bambù. Cresciuta in altezza e in bellezza con la rapidità della pianta da cui prende il nome, la principessa attira l’interesse di molti pretendenti, che incominciano a innamorarsi di lei solo per sentito dire (secondo gli usi del tempo, infatti, Kaguyahime si cela sempre dietro le cortine nelle zone più interne della casa), e a chiederne insistentemente la mano al tagliabambù. Nonostante i decisi rifiuti della ragazza, cinque di loro continuano imperterriti nel loro corteggiamento finché la principessa, dichiarando al padre adottivo di non poter sposare un uomo senza conoscerne a fondo il cuore, decide di assegnare a ciascuno di loro una prova estremamente difficile – di fatto impossibile – da superare, legata a oggetti più o meno mitici, quali il vello del ratto del fuoco o la ciotola del Buddha.

Il nucleo centrale del racconto si concentra su queste imprese e sugli aspiranti sposi, tutti uomini di alto lignaggio; i singoli episodi, quasi indipendenti, risultano notevoli sia per la loro struttura modulare, tipica della produzione giapponese successiva, sia per il ritmo e la suspense che l’autore riesce a infondere alle rocambolesche (e a volte ridicole) avventure dei cinque pretendenti. Le prove, oltre a seguire un ordine prestabilito (più è alto il grado sociale, più la richiesta sarà difficile), richiedono in quattro casi su cinque l’allontanamento del protagonista dal paese attraverso il mare: davanti a questo ostacolo quasi tutti, che si tratti di principi, ministri o gran consiglieri, tentennano, e preferiscono ricorrere all’inganno o spedire altri al posto loro. Qualunque sia la strategia, tuttavia, tutti quanti finiscono per fallire miseramente ed essere smascherati dalla principessa la quale, dal canto suo, non potendo e non volendo comunicare direttamente con loro, li schernisce a colpi di poesie; particolarmente sagaci a questo proposito i versi che rivolge al principe Kuramochi, incaricato di cogliere sul monte un ramo tempestato di gemme e facilmente sbugiardato dopo il suo fantasmagorico racconto dell’ardua impresa. Giocando sull’ambivalenza tra kotoba (parola) e koto no ha (parola, ma anche foglia) la principessa riconsegna il falso al mittente, scrivendo:

Mi chiedevo se era vero

Ed ecco che il ramo gemmato

È coperto solo di foglie di parole.

Dopo il fallimento dei cinque (uno, il più onesto, perisce nel tentativo), la fama della bellezza e della ritrosia di Kaguyahime giunge all’orecchio dell’Imperatore, che, incuriosito, invia una dama perché possa condurla a sé. Ancora una volta però, la fanciulla si dimostra impassibile, e arriva a dichiarare sfrontatamente: «Della volontà di Sua Maestà, ben poco mi importa!»

Il tagliabambù, affranto per il comportamento della figlia e allo stesso tempo rispettoso del suo volere, decide di orchestrare uno stratagemma perché i due possano incontrarsi: alla vista di cotanto splendore, l’Imperatore non può che innamorarsi perdutamente. Tra i due inizia una lunga e affettuosa corrispondenza, ma l’idillio è destinato a cessare presto: la principessa non è creatura di questo mondo, e l’armonia infranta nel momento in cui il taketori la raccolse dal bambù deve essere ristabilita. Sospirando dinanzi alla luna, colma di aware (la percezione simultanea, così cara agli orientali, della bellezza delle cose e della loro caducità), la fanciulla palesa la sua vera natura:

Il mio corpo non è quello di un essere umano, sono un’abitante della Capitale della Luna, venuta sulla terra per espiare una colpa precedente. Ora è giunto il momento di ritornare da dove vengo, così quando questo mese sarà luna piena, la gente del mio paese verrà a riprendermi. Dato che è deciso che me ne devo andare, l’idea di procurarvi dolore è la causa della mia malinconia dalla scorsa primavera.

La mutua sofferenza nel momento dell’addio è forse una delle parti più struggenti dell’opera, intrisa di lirismo e commozione. La principessa, che fino a poco tempo prima pareva algida e distante, ora mostra per i genitori adottivi distrutti dal dolore, una sensibilità tutta terrena:

Lascio qui la veste in mio ricordo. Nelle notti di luna, guardate in su verso di me. Ora che me ne vado abbandonandovi ho la sensazione di cadere dal cielo.

Due mondi opposti si sono incontrati e quegli stessi due mondi devono ora dividersi , ma, prima di indossare la veste di piume (altro motivo ricorrente del folclore giapponese) che i suoi simili le hanno portato e che le farà dimenticare la sua vita umana, Kaguyahime si assicura di far recapitare all’Imperatore, come ultimo dono, l’elisir dell’immortalità; questi però deciderà di farlo bruciare sul monte più vicino al cielo, affinché il fumo possa salire fino alle nuvole: a che vale infatti vivere in eterno, se si è perduto il proprio amore?

Nella innocente semplicità di questa fiaba dallo stile piano, vicino al parlato, che echeggia gli schemi di Propp e che inizia con Ima wa mukashi (C’era una volta), il retaggio arcaico delle antiche leggende da cui trae spunto lascia dunque man mano spazio al realismo, e, con una ben dosata ironia e una straordinaria polifonia narrativa, si presenta provvisto di un’unità strutturale inusitata e fuori dal suo tempo.

A questo va aggiunta la tridimensionalità psicologica dei protagonisti: basti pensare al tagliabambù che, da uomo mite, quasi in soggezione davanti alla principessa, si fa via via più di sicuro nel trattare con i pretendenti, e, soprattutto, a Kaguyahime che, femminista ante litteram, spicca per il suo atteggiamento di indipendenza e rivolta sociale, arrivando a mancare di rispetto al padre, a opporsi all’istituzione del matrimonio, e ad avere parole irriverenti persino per l’Imperatore.

Forse non a caso consacrato da Murasaki Shikibu, altra donna fuori dagli schemi e geniale autrice del Genji Monogatari (XI secolo), la Storia di un tagliabambù è dunque un’opera che ha in sé molto più di quanto non appaia a un primo sguardo superficiale, e può essere a buon diritto riconosciuta come un capolavoro in grado di precorrere i tempi rivoluzionando in punta di piedi un intero panorama culturale.