“Il futon” di Tayama Katai

“Il futon” di Tayama Katai

Alcuni anni fa Maria Teresa Orsi scrisse che Il futon (Marsilio, 2015, traduzione di Ilaria Ingegneri) «creava un modello di scandalo ma allo stesso tempo fissava le convenzioni che per lungo tempo avrebbero dominato la narrativa del Novecento: da una parte il naturalismo come descrizione obiettiva della realtà più direttamente sperimentabile dallo scrittore, ossia sé stesso e l’ambiente circostante, dall’altra l’insistenza sull’elemento confessionale e privato, dove l’autore non esitava a rivelare particolari anche insignificanti della propria vita».

In queste poche, lucidissime righe, la scrittrice sintetizzò la grandezza di un romanzo considerato a tutti gli effetti uno dei capisaldi della letteratura giapponese moderna.

L’autore di Il futon, Tayama Katai (1872-1930), pseudonimo di Tayama Rokuya, fu infatti uno dei maggiori esponenti del naturalismo giapponese di fine Ottocento: dopo un’educazione di stampo classico, basata sugli studi cinesi e sulla composizione di poesie, Katai si accostò alla cultura europea e al movimento genbun’itchi, che avvicinava il linguaggio scritto a quello parlato.

Il 1907 è l’anno della composizione del suo capolavoro, ma anche della pubblicazione del saggio-manifesto Rokotsu naru byōsha (La descrizione cruda), nel quale sottolinea la necessità di uno stile che si distacchi dall’ossessione per mekki, la “doratura” fittizia dei dettagli stilistici, che tanto criticava negli autori contemporanei.

Katai propone quindi una scrittura capace di descrivere in modo più autentico la realtà, senza tentativi di analisi: la natura va riprodotta attraverso la propria individualità (non nega infatti la presenza inevitabile della soggettività dell’autore) ma senza quella soggettività “piccola”, fine a sé stessa, tipica della tradizione precedente.

Lo scopo di Katai, per sua stessa affermazione, non è «di trasmettere un significato o raccontare una storia. Né di riferire un evento. È di cogliere una scena viva che entra nel cervello attraverso gli occhi, e ricrearla così com’è mostrandola sulla pagina».

Anche se fortemente ispirata al naturalismo tedesco e a quello francese di stampo zoliano, va precisato che la corrente nipponica si distingue dal movimento originario per alcune rilevanti sfumature di significato: il termine shizen infatti, usato in origine come traduzione letterale di “natura”, non si riferisce come in Occidente all’essenza delle cose e alla dimensione dell’oggetto in contrapposizione alla dimensione soggettiva, quanto a un mondo in cui soggetto e oggetto sono fusi insieme.

Durante la prima fase della corrente, definita zenki shizenshugi, il concetto chiave era ancora quello dell’arte come imitazione della natura con intenti sociologici e senza filtri morali; la maturità del naturalismo giapponese (lo shizenha shōsetsu) – che trova il suo compimento proprio con Takai e il suo Futon –, vedrà invece una trasformazione radicale, protesa verso l’unica verità conoscibile: quella del singolo individuo, spesso coincidente con l’autore stesso.

Narrato in terza persona ma con focalizzazione interna e caratterizzato da una sottile ironia che trova spazio nella distanza, seppur minima, tra narratore e personaggio, il romanzo-confessione ha come protagonista Takenaka Tokio, uno sfortunato romanziere e padre di famiglia trentacinquenne. Stanco della vita coniugale, Takenaka trascorre le sue giornate ordinarie e si sente terribilmente solo.

La monotonia viene scossa dall’arrivo di Yokoyama Yoshiko, una diciannovenne di provincia che ha ricevuto un’educazione cristiana e che, grande ammiratrice di Tokio, desidera diventare sua allieva. Inizialmente restio ad accettarla, attraverso un fitto scambio epistolare, lo scrittore scopre nella ragazza una donna moderna e intelligente che condivide i suoi interessi letterari. Dopo averla accolta in casa, l’uomo se ne innamora senza rendersene conto ma, frenato dai suoi doveri di uomo sposato, tenta di salvare le apparenze proponendole di andare a vivere dalla cognata.

Per quanto Tokio si dichiari più volte contrario e diffidente nei confronti di una donna che si dedica agli studi umanistici, sono soprattutto lo stile epistolare e l’interesse per la letteratura di Yoshiko a renderla una “donna nuova” ai suoi occhi, in netto contrasto con l’aridità intellettuale della moglie:

Da quattro o cinque anni a questa parte, con la diffusione dell’istruzione per le donne e l’istituzione dell’università femminile, nessuna ormai si vergognava più di portare l’acconciatura hisashigami, di indossare hakema marroni, di camminare alla pari con l’uomo. Per Tokio era insopportabile doversi accontentare di quella moglie che aveva da offrire solo un’antiquata acconciatura marumage, una camminata da papera, docilità e fedeltà. Non poteva fare a meno di lamentare la sua solitudine, dovuta a quella sposa che non pensava neppure di leggere i romanzi su cui lui tanto penava […].

L’educazione spirituale e morale della fanciulla passa soprattutto attraverso modelli comportamentali derivati direttamente dalla letteratura occidentale, a testimonianza del retroterra culturale dell’autore: Nora di Ibsen, Magda di Sudermann, Elena di Turgenev sono esempi proposti a Yoshiko come paradigmatici di una nuova consapevolezza femminile, lontana dalla mentalità chiusa del passato:

Voi gente all’antica non potete capire quello che fa Yoshiko. Se un ragazzo e una ragazza camminano da soli o si parlano, subito a pensare male […] Ormai anche le donne devono prendere coscienza. Non possono più avere un atteggiamento di dipendenza come in passato. Come dice la Magda di Sudermann, non si può essere talmente insignificanti da passare direttamente dalle mani del padre a quelle del marito. Come nuova donna giapponese devi pensare da sola e agire da sola!

Quando però Yoshiko si innamora di un suo coetaneo e chiede al suo maestro la protezione e la benedizione di quell’amore – a suo dire – «sacro e casto» (ren’ai), Tokio subisce tutta la contraddizione interiore delle sue facili affermazioni e precipita in un tormento interiore da cui non riesce a liberarsi.

Katai ci racconta con crudezza e realismo le ossessioni del protagonista, i suoi turbamenti, il suo indulgere nell’autocommiserazione e in una gelosia insensata; l’uomo inizia a ubriacarsi davanti alla moglie senza vergogna e, sentendosi tradito dalla ragazza che ha mentito anche sul grado di intimità della sua relazione, rivela al padre di lei la tresca amorosa e lascia che venga ricondotta a casa, mentre rimane a crogiolarsi nelle proprie illusioni narcisistiche:

[…] Forse anche Yoshiko sarebbe stata felice di diventare sua moglie. Sarebbe stata una vita ideale, una vita da romanzo, in cui lei avrebbe lenito i suoi tormenti insopportabili della creazione artistica.

Quella stessa ragazza, di cui aveva lodato l’attitudine moderna e che aveva difeso davanti alla moglie, è adesso, per gli stessi motivi, il suo più acuto tormento. L’iconica scena finale da cui il romanzo prende il titolo, è l’esempio più evidente dell’ironia del narratore nei confronti dell’ipocrisia e del narcisismo di Tokio:

[…] annusò rapito l’odore di quella donna di cui sentiva tanto la mancanza. Il cuore di Tokio fu immediatamente travolto dal desiderio, dalla tristezza e dalla disperazione. Stese il futon, si coprì con la trapunta e sprofondò il viso in quel freddo e sporco risvolto di velluto. La stanza era buia, fuori soffiava impetuoso il vento.

Scritto in dieci giorni in un luogo isolato e lontano dalla città, Il futon suscitò scandalo all’epoca perché prendeva spunto dalla biografia dell’autore: Katai ebbe infatti una relazione con una giovane di provincia, Okada Michiyo, che nel 1904 si era trasferita da lui a Tokyo, attratta dalla sua produzione letteraria e desiderosa di diventare sua allieva. Esattamente come nel romanzo, l’autore, pur rimanendo affascinato dal suo stile moderno, tentennò prima di prenderla con sé, per poi lasciarla tornare definitivamente al proprio paese nel 1906.

A ciò si aggiunga la fondamentale mediazione della letteratura, e in particolare di quella occidentale, tra vita reale e arte: a ispirare Katai fu infatti anche il dramma Anime solitarie (1891) di Gerhart Hauptmann che presenta una situazione simile alla vicenda narrata nel romanzo e a quella autobiografica dell’autore stesso: il protagonista, Johannes Vockerat, insoddisfatto della sua vita matrimoniale e oppresso dagli obblighi sociali si innamora, come Tokio e Katai, di una giovane studentessa, Anna Mahr e, incapace di gestire il suo conflitto interiore, si suicida.

Sentii che la solitudine di Vockerat era la mia stessa solitudine. […] Decisi di scrivere della mia Anna Mahr, che mi aveva tormentato per due o tre anni fin dalla primavera in cui era scoppiata la guerra russo-giapponese. […] La mia Anna Mahr era ora tornata nella sua casa di campagna sulle colline. Le avevo fatto visita l’autunno precedente di ritorno da un viaggio. Avevo ancora una vivida immagine di lei nella mia mente. Dovevo scrivere di lei? Se l’avessi fatto, avrebbe significato abbandonare completamente il mio amore per lei. Avrei dovuto non scrivere e aspettare che in qualche futura occasione quell’amore sarebbe prosperato? Restai nel dubbio per un bel po’, ma alla fine fui spinto a scrivere da diversi fattori: la scadenza per quel che avevo promesso a “Shinchōsha”, il voler scrivere qualcosa di decisivo per la mia carriera e la comparsa di nuove tendenze nel mondo letterario.

Pur nell’ondata di polemiche e scalpore che destò per il modo in cui metteva a nudo i pensieri più intimi del protagonista, che tutti identificarono senza esitazione con l’autore (e che ricevette anche le lamentele e lo sdegno della sua Michiyo), il romanzo ebbe un enorme successo e fu acclamato dalla critica dell’epoca come un’opera innovativa, “carne e sangue” della dottrina naturalista, basato sulla confessione senza artificiosità o abbellimenti che, per lo scrittore Oguri Fūyō, «riempie di sé tutto, sia la forma sia il contenuto».

Anche se oggi la portata scandalosa di Il futon è decisamente minima, il suo fascino e il suo valore rimangono immutati: l’approfondimento psicologico di indubbia modernità dei personaggi, apprezzato già dai critici coevi, la commistione tra naturalismo e realismo in un romanzo per la prima volta tutto incentrato sul soggetto, la capacità dell’autore di riportare sulla pagina un uomo reale, con le sue debolezze e meschinità – «un essere umano nella sua nudità», come disse il critico Shimamura Hōgetsu – ne fanno una lettura imprescindibile per chiunque voglia comprendere appieno il canone della letteratura giapponese moderna.