Dall’esilio di Iosif Brodskij
Rivendicare l’umano. Uno sguardo sull’emigrazione della letteratura
La vita in esilio, all’estero, in un elemento estraneo, è essenzialmente una premonizione di quello che sarà il tuo destino cartaceo: il destino di un libro sperduto sullo scaffale in mezzo a quelli con i quali hai in comune soltanto la prima lettera del tuo cognome. Eccoti lì, nella sala di lettura di qualche gigantesca biblioteca, ancora aperto… Il tuo lettore se ne infischierà di sapere come diavolo sei finito lì: in una certa prospettiva, tutto quello che lui legge si mescola e si fonde insieme. Se non vuoi finire di nuovo sullo scaffale, devi poter dire al tuo lettore – che crede di sapere tutto – qualche cosa che sia qualitativamente nuovo, sul suo mondo e su lui stesso. Il discorso si fa un po’ troppo immaginoso? Pazienza: perché a questo punto tutto è immaginazione e suggestione, e perché la distanza che l’esilio mette tra un autore e i suoi personaggi richiede davvero, qualche volta, l’uso di simboli astronomici o ecclesiastici.
Immaginate, invece, di aprire un libretto e di esserne immediatamente inghiottiti, come proiettati in una platea silenziosa, stregata da uno scrittore che racconta, con ironia cinica e amarezza, una “tragicommedia”. Ed eccovi a sfogliare le pagine, increduli per la potenza con cui tuttora risuonano le parole incise nella Storia dal poeta russo Iosif Brodskij in occasione del discorso su La condizione che chiamiamo esilio, pronunciato durante una conferenza tenuta a Vienna dalla Wheatland Foundation, del Discorso di accettazione (entrambi tradotti da Gilberto Forti) e del Discorso per il Premio Nobel dell’autunno 1987 (qui citato nella traduzione italiana di Giovanni Buttafava).
Pubblicato da Adelphi, Dall’esilio (1988) raccoglie emozionanti bilanci sul ruolo della cultura e riflessioni sulla posizione dell’emigrato in un album di immagini ritratte con pennellate metaforiche per esorcizzare sofferenze e smentire preconcetti. Le considerazioni di Brodskij, insieme esilaranti e taglienti, sanciscono la rivincita dell’émigré che cessa di giocare “all’esilio alla vecchia maniera” e assume ora un atteggiamento proattivo, accettando di essere la causa e non più l’effetto della propria condizione.
L’autore, perseguitato dal regime, accusato di parassitismo sociale, condannato ai lavori forzati e costretto poi a lasciare la patria, ha ben compreso come scavare nel marciume. Come insegna Baudelaire, i poeti hanno quella straordinaria capacità di estrapolare il bello dall’orrido, di trasformare la melma in bocciolo, sorprendente gemma concimata nello strapiombo dell’umanità. Brodskij, allo stesso modo, demolisce l’idea di esilio-quartier-generale-del-dolore e lascia che dalle macerie riemerga il germoglio della possibilità.
Dobbiamo parlare perché dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto.
Nel nostro Angolo russo l’esilio è un tema ricorrente. In questa occasione, però, per quanto ci si addentri convinti di leggere solo di vicende dall’oltreconfine, sebbene il titolo suggerisca un approccio spaziale e non argomentativo (“dall’esilio”, appunto, e non “dell’esilio”), l’emigrazione – intervallo fisico in cui lo scrittore ha accesso gratuito a quegli ideali di libertà dai quali, fin da principio, è stato mosso – non è che l’ambientazione nella quale prende corpo una strenua apologia della letteratura, intesa come luogo in cui umanità e diversità si incontrano.
Diventare un ago in quel proverbiale pagliaio – ma un ago che qualcuno va cercando –, questo è l’esilio, in sostanza. Ammaina la tua vanità, dice l’esilio, non sei che un granello di sabbia nel deserto. Non ti confrontare con gli altri uomini di penna, ma con l’infinità umana: la quale è amara e triste più o meno quanto quella non umana.
Ovunque tiri il vento della libertà, l’arte spazza via consenso e unanimità, seminando polifonia e indifferenza. La poesia, a sua volta, parla all’individuo opponendosi all’omologazione, ne stimola la specificità istituendo con lui un dialogo privato.
Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria, e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-à-tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta. È questo il motivo per cui l’arte in generale, la letteratura in special modo e la poesia in particolare non sono propriamente apprezzate dai paladini del bene comune […]. In altre parole, all’interno di quei piccoli zeri sui quali i paladini del bene comune e i signori delle masse fanno conto per le loro operazioni, l’arte introduce delle varianti, ‘punto, punto, virgola, meno’, trasformando ogni piccolo zero in un piccolo volto, non sempre grazioso, magari, ma umano.
Ebbene, quando si legge un libro intenso, incandescente e tonante, lo si vorrebbe spremere per farlo proprio e coglierne l’essenza. Lo si vorrebbe consegnare al lettore integralmente, per accompagnarlo passo dopo passo lungo il percorso delineato dall’autore. Alla fine del corridoio, possiamo anticiparlo, c’è una finestra che affaccia su un oltreconfine metafisico e interiore, uno spazio puramente concettuale dove l’uomo, e ancor più lo scrittore, resta solo con sé stesso e, voltate le spalle al passato e rivolto lo sguardo al presente, cerca riparo nella propria lingua-scudo.
Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula.
Per il poeta emancipato di cui Brodskij è modello, la parola – magica creatrice di realtà parallele – incarna una preziosa zona d’esilio volontario. “Meta della nostra specie”, la creazione artistica consente infatti di riempire il ‘non essere’ e riscrivere il vuoto ai quali l’émigré viene condannato. Sfuggendo alla tirannia alla ricerca di un ‘altrove’ per ricostruirsi, la letteratura emigra e in assenza di un angolino che lo accolga, lo scrittore resiliente alla guida della comunità trova rifugio tra le sue braccia.
Se l’arte insegna qualcosa (in primo luogo all’artista stesso), è proprio la dimensione privata della condizione umana. Essendo la forma più antica, e anche la più letterale, di iniziativa privata, l’arte stimola nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità […], trasformandolo da animale sociale in un ‘Io’ autonomo.