“Le memorie della dama di Sarashina”
Grazie alla sua condizione sui generis, la scrittura diaristica ha permesso a molte donne – relegate per secoli alla sfera familiare – di trasmettere la propria voce e di trovare un proprio spazio. Nel Giappone di epoca Heian il cinese era appannaggio esclusivamente maschile, i diari (nikki) venivano redatti in kana, una forma di scrittura fonetica che diventerà poi marchio di fabbrica della scrittura delle donne, tanto da essere denominata onnade, “mano femminile”.
Redatti seguendo gli episodi conservati dalla memoria più che l’ordine cronologico, i nikki non erano però del tutto immuni da influssi esterni: spesso infatti venivano condizionati dalle pressioni politiche degli uomini di famiglia che, attraverso la scrittura di mogli e concubine, volevano assicurarsi l’immagine di grandi amatori e mirabili poeti.
Delle stesse autrici il più delle volte ci viene trasmessa un’identità parziale, sfumata o dai contorni definiti solo in base alle parentele maschili: è il caso del Sarashina nikki, scritto presumibilmente intorno al 1060 e tramandato come opera della non meglio precisata “figlia di Sugawara no Takasue”, vicegovernatore prima della provincia di Kazusa e poi di Hitachi.
Anche questo diario si configura come una retrospettiva che segue quarant’anni di vita, dalla partenza da Kazusa a tredici anni fino alla solitudine della vedovanza; ciò che tuttavia distingue le Memorie della dama di Sarashina da altre testimonianze simili è proprio la figura dell’autrice/protagonista che, fin dall’inizio, si mostra fuori dai rigidi schemi del tempo: insofferente alle attività tipiche del suo sesso e del suo rango, la giovane non riesce a integrarsi con le coetanee, tutte votate alle pratiche religiose, e afferma con decisione di volersi dedicare soltanto alla lettura di romanzi, i monogatari, per perdersi nelle fantasie che scaturiscono dalle storie.
A quei tempi le ragazze di diciassette o diciotto anni leggevano le sacre scritture e si dedicavano alle pratiche religiose. A me, invece, non sfiorava neanche l’idea di farlo. Tutto ciò che desideravo era che almeno una volta all’anno venisse a farmi visita un uomo di alto rango, bello e distinto come Genji lo splendente, mentre io come Ukifune, nascosta in un villaggio di montagna, contemplavo i fiori, le foglie rosse, la luna e la neve nell’impaziente attesa di una magnifica lettera che di tanto in tanto potesse distrarmi dalla mia profonda solitudine.
Il suo interesse per la letteratura d’evasione è tale da spingerla a pregare la statua del Buddha Yakushi affinché la faccia tornare presto nella capitale, così da poter leggere le versioni integrali (all’epoca spesso difficili da reperire) dei suoi amati monogatari.
Non ricordo perché mai avessi cominciato a pensarci, però, da quando ero venuta a sapere che al mondo esistevano i monogatari, volevo leggerli a ogni costo. Durante le oziose ore del giorno o di sera, quando ci riunivamo, mentre ascoltavo mia sorella e la matrigna narrare passi di questo e quell’altro racconto, o descrivere episodi della Storia di Genji, la mia brama cresceva ancora di più.
Il desiderio della figlia di Sugawara viene effettivamente esaudito, e gran parte dell’opera consiste nella descrizione del viaggio dalla provincia verso la capitale, tanto da far presumere che in origine il Sarashina nikki potesse essere stato concepito come un diario di viaggio (kikōbun).
Compiuto secondo un itinerario inverso rispetto a quello dell’autore del celebre Ise monogatari del X secolo (l’uno va verso est perché insoddisfatto della corte, l’altra verso ovest per sfuggire alla monotonia della vita di provincia), è soprattutto un percorso di crescita interiore, che conduce presto la protagonista fuori dal mondo ancora ovattato e colmo di dolci illusioni in cui si era crogiolata, verso una realtà più dura e ostile.
Provinciale com’ero, credevo che fare la dama di corte sarebbe stato molto più interessante della monotona vita familiare e che mi sarei anche divertita. Tuttavia, quando iniziò il mio apprendistato, capii subito che inevitabilmente sarebbe stato un susseguirsi di episodi imbarazzanti e incresciosi. Ma cosa mai potevo farci?
A un breve e deludente periodo come dama di corte, nel corso del quale l’autrice patisce una profonda nostalgia per la famiglia e il disagio di vivere e dormire con persone estranee, segue il matrimonio con un uomo che le assicura agiatezza, ma che non ha nulla dei “principi splendenti” vagheggiati in gioventù: ancora una volta la distanza tra realtà e fantasia è netta.
Da quel momento la sua esistenza procede verso un lento ma inesorabile declino. Ecco perché il romanzo può essere letto anche come un zange monogatari, una sorta di racconto-confessione per ammonire il lettore contro i pericoli delle letture futili e incentrate sulle passioni: dopo la morte del padre, del marito e di molti affetti, la donna si pente infatti di aver sprecato tanto tempo nella lettura dei romanzi e si piega alla necessità di compiere dei pellegrinaggi, sperando di poter fare ammenda della sua frivolezza e di tutti quei sogni premonitori o ammonitori (ben undici, in alcuni dei quali ad apparirle è lo stesso Buddha Amida), da lei perennemente taciuti o ignorati.
Se in passato, invece di appassionarmi a futili racconti e poesie, mi fossi dedicata dalla mattina alla sera alle pratiche religiose, non avrei forse vissuto un’esistenza effimera come un sogno. […] Ormai ero convinta che non avrei visto nessuno dei miei desideri realizzarsi nella mia vita e, senza far nulla che mi consentisse di acquisire dei meriti, vivevo in balia dell’incertezza. […] Le persone che una volta vivevano con me se ne erano andate tutte via e nella casa dove vivevo in profonda solitudine trascorrevo notti insonni, immersa nei miei pensieri.
Come una Madame Bovary d’altri tempi e latitudini, la smania della protagonista di proiettarsi in un mondo ideale racchiuso tra le pagine di un libro finirà dunque per farla sprofondare in un vortice di infelicità e disillusione senza ritorno. Ciò che sorprende in questo testo è soprattutto la modernità e la tridimensionalità di una voce narrante incredibilmente vivida, che ci conduce lungo un continuo alternarsi di commozioni, tristezze, intense nostalgie, mentre la genuina passione per la lettura e i romanzi rimane perno saldo della sua esistenza.
Prima di allora avevo letto con il fiato sospeso solo alcune parti della Storia di Genji irritandomi perché non riuscivo a comprenderne bene la trama. La soddisfazione che provavo quando tutta sola, sdraiata dietro un paravento, tiravo fuori dalla scatola uno dopo l’altro i fascicoli per leggerli, era invece così grande che non avrei scambiato il mio posto neanche con quello di una consorte imperiale! Leggevo tutto il giorno, e la notte, quando ero sveglia, continuavo a leggere alla luce di un lume. Non facevo altro, e con immensa soddisfazione mi resi conto che senza sforzo ero riuscita a memorizzare diversi passi di quella storia.
L’attualità e originalità di Le memorie della dama di Sarashina sono confermate dalla struttura del romanzo, tutt’altro che lineare. L’intreccio si gioca sull’alternanza di piani che, attraverso metaracconti e dettagli onirici, assottigliano il confine tra reale e immaginario: com’è caratteristico dei nikki e in generale della letteratura giapponese, le parti narrative coesistono con numerosi dialoghi in versi, tanto che i passaggi in prosa finiscono per apparire mere prefazioni ai lunghi brani lirici.
Edito in Italia per Marsilio con l’attenta curatela di Carolina Negri, Le memorie della dama di Sarashina è dunque un diario-autobiografia che ci rivela uno spiraglio di inattesa e brillante modernità; un piccolo tassello in un mosaico – quello della letteratura giapponese – che, ancora una volta, si dimostra articolato, composito e capace di sorprendere oltre ogni previsione.