Sara Gargano
pubblicato 3 anni fa in L'angolo russo

Sgocciolano parole. La danza della pioggia di Boris Pasternak

Sgocciolano parole. La danza della pioggia di Boris Pasternak

Poesia, quando sotto il rubinetto

è un truismo vuoto come lo zinco d’una secchia,

anche allora il getto resta incolume,

il quaderno è approntato: puoi scorrere!

«Leggere i versi di Pasternak è come purificarsi la gola, rafforzare il respiro, rinnovare i polmoni: simili versi devono essere adatti a curare la tubercolosi», scriveva Osip Mandel’štam a proposito del contemporaneo Boris Pasternak, padre del celebre Dottor Živago. Opera dall’intricata vicenda editoriale, il romanzo è stato concepito nell’arco di un decennio. Concluso nel 1955 viene consegnato a riviste del calibro di «Novyj mir» che, ricorda Angelo Maria Ripellino, accantona il manoscritto senza pronunciarsi sull’eventuale pubblicazione. Su proposta di un giovane comunista italiano, Sergio D’Angelo, l’autore – ben conscio dell’impatto e delle conseguenze che una simile decisione avrebbe avuto sulla sua vita in URSS – si convince affinché l’opera integrale venga edita da Feltrinelli. Dato alle stampe nel 1957, Dottor Živago vale al suo creatore il Premio Nobel per la letteratura, premio che sarà costretto a rifiutare e che, al suo posto, ritirerà il figlio Evgenij.

Affacciatosi al mondo della creazione letteraria negli anni Dieci del Novecento, in quel periodo di grande fermento culturale che precedette la canonizzazione dell’arte sotto il regime sovietico e il battesimo del realismo socialista, Pasternak si rivela sin da subito, affermandosi con la pubblicazione della raccolta Mia sorella la vita (1922), l’immenso poeta che regalerà alla letteratura russa alcuni tesori tuttora insuperati. Partecipa dapprima alla fondazione del gruppo Centrifuga, gruppo a cavallo tra futurismo e simbolismo, dal quale si distacca poco dopo per avvicinarsi alla fazione più estrema e ribelle del composito macro-movimento futurista russo: il cubofuturismo.

Dal cubofuturismo e, in particolare da quel fiero rivoluzionario che risponde al nome di Velimir Chlebnikov, riprende la necessità di liberare la parola, pur non rifiutando la metrica classica e la tradizione che, al contrario, cita a più riprese ricordandone nomi (Puškin, immancabile) e passaggi (come la celeberrima battuta «I felici non osservano orologi» tratta dall’opera di Aleksandr Griboedov, Che disgrazia l’ingegno!).

Nelle sue liriche, ingiustamente meno note rispetto al romanzo che lo ha consacrato a livello internazionale, il tessuto verbale sembra tangibile, corporeo, volumetrico e ogni elemento assume una funzione acustica – letterale e letteraria trasposizione dell’approccio pittorico cubista mediante l’intreccio di materia sonora e la tessitura di una trama fonetica ‘scattosa’.

Sui marciapiedi li sminuzzerò

in un miscuglio di vetro e di sole,

d’inverno li rivelerò al soffitto,

li farò leggere agli angoli umidi.

Futurista moderato e sui generis, dopo la Rivoluzione d’Ottobre rompe con l’arte avanguardista, prende le distanze dalla cultura proletaria e mostra interesse per il gruppo degli immaginisti, con i quali occasionalmente collabora. Scrittore dalle tinte romantiche, Pasternak è nella letteratura russa del Novecento il cantore della natura per eccellenza. Ovunque, nell’antologia di Poesie pubblicata da Einaudi Editore (1957), curata e tradotta dall’eccezionale Ripellino che ne firma l’introduzione, l’elemento naturale prende vita, «vuole», «piange», lasciando sottintendere una illusoria comunione con gli stati d’animo dell’autore, con le sensazioni di un io lirico in realtà non rintracciabile.

L’ambiente circostante ha un impatto fondamentale sulla creazione poetica di Pasternak, che mira ad esaltare il terrestre e il quotidiano con la stessa fedeltà con cui nei decenni successivi, da “emigrato interno” accusato di neutralità politico-intellettuale e da poeta costretto ad occuparsi di traduzioni e di critica letteraria retrospettiva, saprà tracciare il ritratto sofferto dell’attualità sovietica, dell’amaro destino dello scrittore russo, tenuto a sacrificare se stesso e la propria vulnerabilità artistica.

I suoi versi abbondano di descrizioni paesaggistiche caratterizzate da percezioni fresche e precise, da minuzie riprodotte nel dettaglio e offerte al lettore nell’integralità del loro spettro sensoriale, in un insieme pluridimensionale olfattivo, uditivo e visuale:

Si tendeva dalla sete ai succhiatoi

e alle farfalle e alle macchie,

tessendo alle une e alle altre la memoria

con odore estenuante di miele e di menta.

La sua è una poesia “stagionale”, scandita dal fluire del tempo atmosferico, dalle fasi del giorno e dell’anno. Se Pasternak fosse un pittore ne riconosceremmo, oltre alla nuance cubista, l’attenzione ossessiva per le impressioni, per l’evoluzione della luce e del paesaggio tipica di Monet. La potenza della semplicità assieme alle sensazioni di stupore primordiale rendono i suoi versi unici nel loro genere e la sua poetica assume – come sostiene Ripellino nella sua introduzione – un’aria da giorno della creazione; si nutre di nubi e burroni, i quali si riversano sulla pagina bianca come fossero al mondo per la prima volta, perché carichi di uno straordinario, ardito e imprevisto valore metaforico.

Coltiva per te splendide gorgiere e crinoline,

assorbi le nubi e i burroni,

e di notte, poesia, ti spremerò

alla salute dell’avida carta.

Nella poesia pasternakiana le parole si specchiano sul pelo dell’acqua, vengono riflesse sotto la luce delle stelle, scorrono e, colando, si accumulano; goccia dopo goccia bagnano le pagine d’inchiostro piovorno. Si sguazza, ci si tuffa, si naufraga. Quasi costantemente pioviggina. Anche quando il componimento non si situa sin dall’incipit sotto lo sgocciolio della pioggia, basta scorrere lo sguardo verso le strofe successive per intuire un arcobaleno all’orizzonte o, un’invocazione del «lacrimare celeste» che interrompa e porti ristoro dall’estiva afa. «Nessun poeta russo ha cantato la pioggia con tanta intensità. A leggere Sestra moja žizn [Mia sorella la vita], come nota Marina Cvetaeva, si ha l’impressione di muoversi sotto una pioggia dirotta».

Pasternak è un poeta liquido o, per servirci delle parole di Marina Cvetaeva – protagonista assieme a lui e Rainer Maria Rilke di un triangolo epistolare e spirituale –, un «acquazzone luminoso». Si ha l’impressione che la burrasca abbia per lui un potere salvifico, purificatore e che la sua scrittura sia, di conseguenza, un’incessante danza della pioggia.

Mia sorella la vita anche oggi nella piena

s’è frantumata in pioggia primaverile contro tutti.

Lacrime e tempesta, pozze e occhi si fondono e confondono straniando il lettore, intento a cercare la crepa da cui entra l’acqua che inonda il foglio. Ma quanto più incomprensibilmente – scrive Pasternak –, tanto più esattamente si compongono, singhiozzando, i versi.

Recarsi là dove la pioggia torrenziale

Strepita più che lacrime ed inchiostro.

Dove, come pere incenerite,

dagli alberi mille cornacchie

cadranno nelle pozze rovesciando

una secca mestizia sul fondo degli occhi.