Lelio Camassa
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Assalti frustrati nell’Orlando Furioso

Assalti frustrati nell’Orlando Furioso

Il nome di Orlando, il più prode fra i paladini di Carlo Magno, ha il raro potere di evocare all’istante un certo mondo, fatto di eroi valorosi che, fra lo sferragliare delle spade e l’incitamento dei corni di guerra, sterminano infaticabilmente orde indistinte di infedeli per la patria e per Dio; un universo dove ai sordidi inganni dei consiglieri traditori si contrappongono le prodezze belliche dei guerrieri d’onore. In questo spartito, non c’è posto per le note d’amore: gli eroi, rigorosamente vigorosi, maschi e cristiani, appaiono completamente privi di impulsi che non siano correlati alla devozione religiosa o alla fedeltà al re.

Tutto questo, almeno, fino al secondo Quattrocento, quando prima Matteo Maria Boiardo e poi Ludovico Ariosto redigono i loro capolavori, che attingono proprio a vicende e personaggi carolingi. Siamo a Ferrara, dove la corte degli Este apprezza il poema epico-cavalleresco, come dimostra la fortuna dell’Inamoramento de Orlando di Boiardo. Col Furioso, però,Ariosto rimaneggia il genere da una prospettiva precipuamente stilistica, trattando con ironia e parodizzando la materia cavalleresca, osservata con un «sereno e obbiettivo distacco». Basti pensare all’inedita raffigurazione dell’eroe degli eroi, Orlando: il (non più) devoto paladino cristiano delle chansons de gestes, per amore ormai incurante dei suoi doveri militari, infuria completamente nudo per l’Europa, sradicando alberi «come fosser finocchi» e infierendo su malcapitati asini, scagliati con possenti calci a più di «un miglio» di distanza. All’apice della sua follia, Orlando, per ripararsi dal sole, arriva a scavare una fossa nella sabbia per infilarci dentro la testa a mo’ di struzzo (da notare l’ingloriosa pronazione fisica del matto, e il suo contraltare morale; XXIX 58). Causa del delirio è la bellissima Angelica, la principessa del Catai che gli ha preferito Medoro, un soldatuccio svagato e quasi effeminato, non a caso ritratto da Ariosto secondo i canoni della descriptio puellae (XVIII 166).

Angelica, appunto. Nell’ariostesco sciabordare di avventure, due episodi in particolare, con la principessa nelle vesti di coattrice, rivelano il modus narrandi e il brio del Furioso.

La prima (e celebre) vicenda ha per protagonista un nerboruto guerriero saraceno dal roboante nome di Sacripante, re di Circassia: un personaggio di probabile invenzione di Boiardo, che nell’Innamorato è il valoroso e non ricambiato amante-protettore della verginità di Angelica. Siamo all’inizio della storia (I 17-70). Angelica è appena fuggita a cavallo dal campo cristiano, in cui re Carlo l’ha data in custodia, e si è addentrata in una folta boscaglia inseguita da due pretendenti indesiderati. Dopo un giorno di galoppo estenuante, si infratta a dormire in un cespuglio, ma il suo sonno viene interrotto dal sopraggiungere di un cavaliere che, inconsapevolmente, si sdraia sull’erbetta vicino la fanciulla in un atteggiamento sognante, con la mano a sorreggere la guancia. Qui, «pensoso più d’un’ora a capo basso / stette» e «sospirando piangea, tal ch’un ruscello / parean le guancie»; nel frattempo, blatera d’amore. Si tratta proprio di Sacripante, che è all’affannosa ricerca dell’amata e piagnucola lacrime di gelosia: il suo rammarico è non aver colto, quand’era il momento, «frutto né fiore» del suo amore. Le sue parole patetiche e semi-deliranti, permeate di edonismo umanistico, traslano catullianamente la verginità di una fanciulla sul topico piano metaforico della rosa, che perde la sua bellezza non appena viene colta:

La verginella è simile alla rosa, / ch’in bel giardin su la nativa spina / mentre sola e sicura si riposa, / né gregge né pastor se le avicina; […] Ma non sì tosto dal materno stelo / rimossa viene e dal suo ceppo verde, / che quanto avea dagli uomini e dal cielo / favor, grazia e bellezza, tutto perde (I 42-43).

L’apologia della verginità del rancoroso Sacripante, convinto che Angelica sia stata ormai profanata, è evidentemente egoistica e denota una tensione verso l’aspetto tangibile e concreto dell’amore, piuttosto che verso quello spirituale: il che sortisce le sue conseguenze, con immediati risvolti comici.

La reazione di Angelica, udito il lamento, è tutto fuorché compassionevole: calcolatrice e insincera, decide di sfruttare a proprio vantaggio i sentimenti del circasso e di farsi scortare, convinta imprudentemente che Sacripante vorrà serbare intatta la sua onestà. Sbuca allora fuori dal nascondiglio, lo saluta amabilmente e gli fa credere quel che per Ariosto «forse era ver», ossia «che ’l fior virginal così avea salvo, / come se lo portò del materno alvo» (I 55). È musica per le orecchie di Sacripante, offuscato dalla passione: dimentico di ogni cortesia, si direbbe che il circasso quasi decida di svellere la rosa dalla radice: «Corrò la fresca e matutina rosa, / che, tardando, stagion perder potria». Fuor di metafora, pensa di stuprarla, e Sacripante giustifica la propria brama sessuale con la scusa che «So ben ch’a donna non si può far cosa / che più soave e più piacevol sia, / ancor che se ne mostri disdegnosa» (I 58).

Ma, proprio quando si «apparecchia al dolce assalto», tradendo l’ingenua fiducia di Angelica e non facendo nemmeno una figura troppo dignitosa agli occhi del lettore (che pochi istanti prima ha ascoltato i suoi guaiti inconsolabili), per la selva risuona «un gran rumor», che interrompe il tutto sul più bello. Un altro cavaliere «gagliardo e fiero», vestito di bianco e a volto coperto, irrompe e rimanda la letizia già pregustata da Sacripante, che lo sfida in uno degli innumerabili e inconcludenti duelli del poema. Al solito, per Ariosto i due contendenti sono possenti sino all’incredibile, come due leoni o due tori: gli scudi iperbolicamente si infrangono, i colpi ultrasonici rimbombano in tutte le valli attigue, i cavalli «cozzano a guisa di montoni» finché rovinano al suolo. Ma il destriero di Sacripante cade «adosso al suo signor con tutto il peso», e il circasso ora è penosamente immobilizzato, mentre il candido cavaliere e il suo strenuo corsiero, «stimando avere assai di quel conflitto», abbandonano il combattimento mortificando il rivale (I 59-65).

Va da sé che, essendo «Angelica presente al duro caso», la figuraccia di Sacripante sia indubbiamente disonorevole già di suo. Ma Ariosto non perde l’occasione di infierire sul circasso atterrato: lo paragona a un «istordito e stupido aratore» che, dopo la caduta di un fulmine, «mira senza fronde e senza onore / il pin che di lontan veder soleva», solleticando così la malizia del lettore tramite l’allusione al desiderio sessuale frustrato di Sacripante, controcanto dell’immagine del pino spelacchiato. Come se non bastasse, poi, è proprio Angelica a spostare la carcassa del destriero da dosso a Sacripante, quasi una delicata principessa abbia più forza di un membruto cavaliere. L’onta per il potenziale violentatore si ingigantisce allorquando la fanciulla, forse in un moto di compassione, ne giustifica l’ingiustificabile sconfitta: colpa del suo corsiero se è caduto, dice lei; e poi, il bianco guerriero non ha ottenuto una vera vittoria: «così, per quel ch’io me ne sappia, stimo / quando a lasciare il campo è stato primo» (I 57).

Ma Sacripante neanche ha il tempo di truffare sé stesso con queste consolazioni fasulle, perché nuove sfortune sono in agguato. Un messaggero giunge trafelato alla radura e gli chiede se abbia visto un guerriero vestito di bianco; il circasso ammette che costui lo ha appena sconfitto in duello, ma ringalluzzito vuole a tutti i costi sapere chi sia. Le parole del messaggero sono una secchiata d’acqua gelida: «Tu déi saper che ti levò di sella / l’alto valor d’una gentil donzella. / […] Fu Bradamante quella che t’ha tolto / quanto onor mai tu guadagnasti al mondo» (I 59-60). Sconfitto goffamente dinanzi all’amata, per di più da una donna e in un’arte che lui avrebbe dovuto padroneggiare (la contesa armata): Sacripante, al termine di questa sequela di eventi quasi fantozziana, non sa più dove mettere la faccia. Così, cavaliere senza cavalcatura, monta in sella al destriero di Angelica «tacito e muto; / e senza far parola, chetamente», con l’autostima (e la virilità) sottoterra.

Incappare in qualche disavventura sessuale sembra essere destino comune per certi pretendenti di Angelica. Dopo la magra figura di Sacripante, la principessa fugge ancora dagli spasimanti, naturalmente nell’usuale «selva folta» (il locus amoenus deputato agli incontri erotici). Qui si imbatte in un eremita, «ch’avea lunga la barba a mezzo il petto, / devoto e venerabile d’aspetto. / Dagli anni e dal digiuno attenuato, / sopra un lento asinel se ne veniva; / e parea, più ch’alcun fosse mai stato, / di conscïenza scrupolosa e schiva» (II 12-13). Angelica gli chiede protezione dalla turba di innamorati che la bracca e lui, «che sapea negromanzia, / non cessa la donzella confortare / che presto la trarrà d’ogni periglio» (II 14).

È possibile che Ariosto stia strizzando l’occhio al lettore smaliziato, soprattutto se si pensa che, fra Due e Trecento, il termine confortare ha un’accezione metaforica tutt’altro che casta. E infatti accade che, sviati gli amanti-inseguitori con un incantesimo, l’eremita, che «di star con lei piacere avea», sente «il cor» accenderglisi e «scaldarsi le frigide medolle» (VIII 30-50). Al che, quando Angelica «soggiornar seco non volle» ulteriormente e gli sfugge in groppa a un ronzino, il vegliardo si lancia in un improbabile inseguimento sulla sua modestissima cavalcatura, che «poco va di passo e men di trotto, / né stender gli si vuol la bestia sotto». L’eremita allora pensa bene di ricorrere alle proprie arti magiche per concupire la dama; evoca così una torma di spiriti dall’inferno, a uno dei quali affida un compito: entrare nel cavalluccio di Angelica e, dopo alcuni giorni, condurla in una isolata caverna «fra scuri sassi e spaventose grotte», dove il negromante si è nascosto con largo anticipo.

Nella spelonca, Angelica si abbandona a un pianto disperato, ma a rincuorarla, immancabile, «le apparve l’eremita accanto», da lei assurdamente non riconosciuto (dopo soli sei giorni!). Confortata dalla presenza maschile, la principessa gli chiede il solito e avventato soccorso. L’eremita non se lo fa ripetere: «comincia […] a confortarla / con alquante ragion belle e divote» e, disinvoltamente, allunga «l’audaci man, / mentre che parla, / or per lo seno, or per l’umide gote: / poi più sicuro va per abbracciarla», ma Angelica non è lusingata da cotante attenzioni, e «sdegnosetta lo percuote / con una man nel petto, e lo rispinge, / e d’onesto rossor tutta si tinge». Il libidinoso vecchiardo, per ovviare alla repulsione, sfodera «una ampolla di liquore» dalla tasca e, con una spruzzatina di siero magico, fa addormentare Angelica. I quadri di Tintoretto e di Rubens, ispirati all’episodio, catturano l’istantanea della principessa incosciente che «ne l’arena giace / a tutte voglie del vecchio rapace».

Il fraudolento vegliardo «l’abbraccia et a piacer la tocca, / et ella dorme e non può fare ischermo. / Or le bacia il bel petto, ora la bocca; / non è chi ’l veggia in quel loco aspro et ermo». All’atto pratico, però, ecco l’imponderato: «Ma ne l’incontro il suo destrier trabocca; / ch’al disio non risponde il corpo infermo: / era mal atto, perché avea troppi anni; / e potrà peggio, quanto più l’affanni». I lombi dell’eremita, vessati dagli anni, non rispondono al richiamo della natura. Ariosto, nel suo decoro espressivo, per rendere l’oscenità utilizza l’impatto inequivocabile dell’animalesca metafora equina (in questo caso, del destriero stramazzato, «traboccato»), che vanta prestigiosi antecedenti nella letteratura comica italiana e soprattutto nella novellistica, dove ‘cavalcamenti’ più o meno inverecondi sono quasi all’ordine del giorno.

L’autore solo ora enfatizza che il ‘cavalierato’ dell’eremita sia destinato a fallire, anche se l’ha adombrato sin da quando ha presentato il vecchio su un pigro asinello con cui, lemme lemme, si approssima a Angelica. Il prosieguo è esilarante. Il vegliardo, che pare non volersi rassegnare al ‘disarcionamento’, «Tutte le vie, tutti li modi tenta, / ma quel pigro rozzon non però salta. / Indarno il fren gli scuote, e lo tormenta; / e non può far che tenga la testa alta». L’avvilente rappresentazione è quella di un uomo dall’aspetto venerando che, accanitamente, si affatica invano sulla propria virilità per scuoterla da un torpore inesorabile, nonostante poteri magici che gli danno autorità persino sui demoni. Insomma, niente giostra equestre per il ‘ronzino’ dell’eremita, che, fallendogli la lena, si addormenta estenuato.

Il capovolgimento di codici e personaggi cavallereschi, come si è visto, è funzionale alla comicità ariostesca. Tuttavia, al di sotto di questa attraente patina superficiale, potrebbero celarsi significati più profondi. Due indizi non fanno una prova, ma fa riflettere che alla tentata violenza sessuale segua, sistematico, un disarcionamento, letterale nel caso di Sacripante e metaforico per l’eremita. Pare quasi che il tentato stupro, lesivo dell’onore femminile, sia in qualche maniera controbilanciato dalla vergogna dello stramazzo del destriero, ignominia maiuscola in un mondo di cavalieri. Sarà forse un piccolo segnale di un’intrinseca e latente coerenza, che si affatica persino in un mondo semidissolto e allo sbando come quello del Furioso, dove «in realtà è la mente dell’Ariosto che […] amministra con mano ferma e sicura tutti gli impulsi e le energie» dell’imprevisto?


Bibliografia di riferimento

P. Casella, Il funzionamento dei personaggi secondari nell’Orlando Furioso: le vicissitudini di Sacripante, in «Italianistica», 35/2 (maggio-agosto 2006), pp. 11-26.

A. Bonadeo, Il lamento di sacripante, in «Italica», 41/4 (Dic. 1964), pp. 355-383.

L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di L. Caretti, Einaudi 1992.

M. Santagata, La pazzia di Orlando e La morte di Orlando, in Id., La letteratura italiana nei secoli della tradizione, Laterza 2007, pp. 189-203 e 3-16.