Conquistate Berlino!
gli ultimi giorni del Terzo Reich
Berlino, aprile 1945. La città è ridotta in macerie per i pesantissimi bombardamenti degli alleati; non ci sono energia elettrica né gas, scarseggia l’acqua potabile e, come se non bastasse, le SS perlustrano ogni casa e scantinato: non cercano più ebrei o oppositori politici ma “soldati” per l’ultima difesa. Di soldati formati alle scuole militari ne restano pochi e così i più ferventi seguaci del nazismo costringono uomini fino a settant’anni o bambini sotto i dodici ad entrare nel Volkssturm, il corpo di “volontari” civili, per difendere la città dai bolscevichi. L’aspetto spettrale della capitale del Reich è completato dai corpi senza vita di coloro che si rifiutano di combattere, impiccati ai lampioni, ai lati delle strade principali, con cartelli di propaganda al collo, come monito.
La belva nazista è ferita e presagisce la fine ma, come ogni animale con le spalle al muro, mostra il suo lato più crudele. Il Führer, ancora incredibilmente convinto di una possibile vittoria, dichiara Berlino “città al fronte” e si appresta a respingere gli invasori. Ma chi sono gli invasori? Su Berlino avanza l’Armata Rossa, il gigantesco esercito sovietico che schiera, in quel settore, 2,5 milioni di soldati, oltre seimila carri armati, quarantamila cannoni e settemila aerei. La città è inoltre sorvegliata a Ovest dalle divisioni anglo-franco-americane.
Mentre Hitler crede nella vittoria, la maggior parte dei suoi soldati è divisa tra chi combatte per la propria vita e chi combatte sperando di potersi arrendere agli alleati occidentali. In Unione Sovietica infatti i reparti delle SS e della Gestapo hanno compiuto vere e proprie stragi: villaggi dati alle fiamme, genocidi di massa, rappresaglie feroci contro ogni atto di resistenza, stupri, prigionieri deportati nei lager cui vanno aggiunte le vittime collaterali dei bombardamenti militari. I russi hanno perso la cifra raccapricciante di 27.917.000 persone durante la guerra, quasi tutti civili (per avere un paragone che renda ancora più drammatiche queste cifre basti pensare che i tedeschi, secondi in Europa per numero di morti, ebbero 8.666.500 vittime contando anche gli austriaci). Quasi tutti i soldati che avanzano sulla città hanno perso almeno un parente durante l’attacco tedesco e adesso sono animati da spirito di vendetta.
Sopra il loro sangue!
È uno dei motti che circola tra le truppe, sebbene gli ufficiali e i leader politici vogliano evitare una strage di massa per non danneggiare l’immagine dei sovietici come liberatori; saranno moltissimi, però, i casi isolati di chi, tra le macerie di Berlino, cercherà di vendicare i suoi cari o le atrocità viste in tutta l’Unione Sovietica.
Stalin, che aveva definito Berlino “la tana della belva fascista”, vorrebbe conquistare la città entro il primo maggio per far coincidere la Festa dei Lavoratori con la caduta del Nazismo; dopo la presa di Königsberg (importante per la storia tedesca nonché città natale del filosofo Immanuel Kant), per invitare i suoi ufficiali a velocizzare le operazioni di attacco, non solo concede unicamente due settimane per preparare un’offensiva che normalmente avrebbe richiesto due o tre mesi ma decide, addirittura, di far partire una “gara” tra i suoi due migliori comandanti, Georgij Konstantinovič Ẑukov e Ivan Stepanovič Konev: solo al primo sarebbe stata riconosciuta gloria eterna (prevarrà Ẑukov e in suo ricordo a Mosca è presente una statua equestre che lo raffigura mentre schiaccia una svastica).
Il 16 aprile, le armate di Ẑukov iniziano le manovre di accerchiamento della città, attaccando le difese tedesche lungo le alture di Seelow: è una battaglia impossibile per i tedeschi che hanno poco meno di 150mila soldati contrapposti ad almeno un milione di sovietici. I tedeschi possono contare sulla posizione elevata delle colline e riescono a resistere quattro giorni prima di alzare bandiera bianca. Con la caduta di Seelow la strada per Berlino è spalancata e la sera del 20 aprile le batterie sovietiche, formate dai lanciarazzi Katiuscia (soprannominati dai tedeschi “organo di Stalin” per il loro caratteristico rumore), iniziano un pesantissimo bombardamento sulla città. È terrificante pensare che, fra il 20 aprile e il 2 maggio, su Berlino saranno sganciate più bombe che durante tutti i bombardamenti aerei alleati.
Il 20 aprile non è una data qualsiasi: è il giorno del cinquantaseiesimo compleanno di Hitler e quella che, fino all’anno precedente, era quasi una festa nazionale, viene ora annullata dallo stato di emergenza che la città vive. Nel suo bunker, scavato sotto la Cancelleria, il Führer festeggia il suo compleanno incurante del massacro che il suo popolo vive al di fuori. Le linee di collegamento radiofonico sono quasi inesistenti e il comando interno al bunker non è a conoscenza della situazione all’esterno. Per ovviare a questo problema si attua una strategia elementare: si chiamano numeri di telefono a caso nelle varie zone della città e si chiede ai berlinesi di descrivere ciò che vedono fuori dalla finestra. Capita però qualcosa di sconcertante: in più occasioni, chiamando la periferia della città, rispondono i soldati sovietici.
La situazione è disperata e il 21 aprile cominciano i combattimenti urbani con i carri armati sovietici che irrompono nelle strade difese dai reparti della Volkssturm, delle Waffen SS e della Gioventù Hitleriana. Questa armata formata da fanatici nazisti, uomini troppo anziani per i duri combattimenti o bambini che si dividono tra chi resta inerme e terrorizzato al rumore degli spari e chi si getta verso la morte, mitizzando i valori che il regime gli aveva inculcato, difende la città utilizzando una delle armi più micidiali che la guerra abbia visto: il Panzerfaust. Questo piccolo cannone portatile monouso non è altro che una carica esplosiva ad alto potenziale montata su un tubo di lancio: costo di produzione basso, facile da usare e devastante negli effetti. La caratteristica principale della carica esplosiva è che detonava, scatenando la sua forza distruttrice, sulla prima superficie toccata: per questa ragione, i sovietici iniziarono a montare sulle corazze laterali dei loro carri armati T34/85 delle reti metalliche, o addirittura le reti dei letti, nella speranza che l’esplosione esaurisse la sua capacità di fuoco senza intaccarne la corazza. Nonostante questa contromossa, i Panzerfaust si riveleranno estremamente efficaci per rallentare l’Armata Rossa.
Il 25 aprile, mentre la guerra finiva in Italia, giunse a Berlino una notizia eclatante: lungo l’Elba, a Sud della città, i sovietici videro un grande esercito appostato lungo il fiume, si misero in allerta pronti a combattere: erano però gli americani, non i tedeschi,
Le truppe dei due eserciti si corsero incontro con le lacrime agli occhi, abbracci, scambi di vodka e sigarette Lucky strike, di armi e orologi, partite a scacchi, a carte e a calcio: quell’incontro significava che la guerra era finita per loro e che il Terzo Reich era ormai al tracollo. Le fotografie di quell’incontro stonano decisamente con il difficile rapporto diplomatico del dopoguerra fra URSS e USA, ma è un’immagine di Storia e umanità molto toccante. Il caporale James J. McDonnell disse in proposito:
Una volta che ci hanno riconosciuto, eravamo tutti amici. Noi non conoscevamo il russo, e loro non sapevano parlare in inglese, ma gli abbracci e le strette di mano hanno detto tutto.
Prima della fine di quella storica giornata, i soldati Silvashko e Robertson furono scelti per fare la Storia: durante le cerimonie e le celebrazioni ufficiali, venne scattata una foto dei due che si salutavano calorosamente su uno sfondo di bandiere sovietiche e americane, e con un cartello dove era scritto “L’oriente incontra l’occidente”. Questa foto, che fece il giro del mondo, divenne un simbolo di unità tra gli alleati. Nonostante il successivo raffreddamento delle relazioni tra i due Paesi, Robertson e Silvashko rimasero buoni amici per il resto della vita. Robertson si recò più volte in Unione Sovietica per incontrare Silvashko.
A Berlino, tra il 26 e il 29 aprile, i combattimenti infuriavano: i sovietici iniziarono ad avanzare nelle vie centrali della città giungendo nel quartiere di Potsdam e lungo Friedrichstrasse e Unter Den Linden, vicino la Porta di Brandeburgo. Contemporaneamente, partì una “battaglia sotterranea”: lungo i binari e nelle stazioni della metropolitana i tedeschi avevano installato posizioni difensive per i depositi di armi e munizioni. In un disperato tentativo di fermare i sovietici, allagarono la linea della metropolitana aprendo delle chiuse del fiume Sprea: moriranno annegati a centinaia fra soldati di entrambi gli schieramenti e civili tedeschi che cercavano rifugio nelle stazioni.
Il 30 aprile restavano solo due importantissimi obiettivi: il Führerbunker e il palazzo del Reichstag, simboli del potere nazista. Stalin chiese alle sue esauste divisioni un ultimo sforzo per celebrare un grandioso primo maggio. Hitler, ormai presagendo la fine, alle 15.20 si suicidò insieme a Eva Braun, sua storica compagna e moglie dal giorno precedente, lasciando come disposizione che i loro corpi fossero arsi, per non lasciare nessun “trofeo” a Stalin. Joseph Goebbels, suo secondo nella gerarchia di comando nonché ministro della propaganda, morirà suicida il giorno seguente, dopo aver sparato a sua moglie e aver ucciso col cianuro i suoi sei figli.
Il palazzo del Reichstag era difeso da quasi cinquemila soldati delle SS e della Gioventù Hitleriana. La sua struttura e posizione lo rendevano estremamente facile da difendere e difficile da attaccare: cecchini, trappole esplosive, nidi di mitragliatrici e i temibili Panzerfaust resero difficilissima l’avanzata sovietica. Per ben tre volte i russi furono respinti fino alle 18.00 quando, attaccando congiuntamente con l’ausilio di cannoni e carri armati, i reggimenti 380°, 674° e 756° raggiunsero i gradini dell’ingresso principale e piazzarono cariche esplosive, riuscendo ad aprire una breccia nelle mura.
Cominciò così un vero e proprio bagno di sangue: nei corridoi e nelle sale del Reichstag si combatteva metro per metro; granate e scontri a fuoco nello stretto si alternarono a cruenti combattimenti corpo a corpo e con l’arma bianca. I tedeschi sfruttarono a loro vantaggio la scarsa luminosità interna dell’edificio e le macerie che permisero loro di creare posizioni protette per le mitragliatrici. Solo nella Sala della Dieta, una delle principali, morirono a centinaia da entrambe le parti.
L’immagine di propaganda che avrebbe sancito, almeno idealmente, la fine della Germania nazista è, senza dubbio, quella di una bandiera rossa sulla cima del Reichstag. Fu così che furono inviate diverse squadre con bandiere sovietiche da issare sul tetto dell’edificio, ma arrivare sul tetto fu veramente un’impresa.
Alla fine, un gruppo di soldati agli ordini del tenente Berest raggiunse la sommità dell’edificio, attraverso le scale sul retro, e su una statua equestre, incastrarono l’asta issando così la bandiera. L’azione fu registrata alle 22.50. Il giorno seguente, il primo maggio, il fotografo Evgenij Chaldej disse che la bandiera era troppo in alto e chiese di spostarla, riproducendo la scena una seconda volta, per scattare una foto destinata ad entrare nella leggenda.
Qui comincia una piccola “storia nella Storia”. Anzitutto sul Reichstag furono issate più bandiere, a livelli diversi, man mano che la conquista dell’edificio proseguiva ma, soprattutto, la famosa foto della bandiera sul tetto subì più di un ritocco: i censori sovietici aggiunsero del fumo sullo sfondo, per dare alla fotografia un effetto più drammatico, mentre furono cancellati alcuni dettagli, come i molti orologi da polso indossati da uno dei soldati, segno che probabilmente l’uomo aveva partecipato a diversi saccheggi (immagine che mal rappresentava un esercito di liberatori). Resta inoltre un dubbio irrisolto, che le fonti non aiutano a sciogliere, su chi fossero i soldati coinvolti nella fotografia: secondo il fotografo era stato il diciottenne soldato Aleksei Kovalev ad issare la bandiera, secondo gli ufficiali furono Egorov e Kantarija (decorati tra l’altro come “Eroi dell’Unione Sovietica”), secondo altre fonti il soldato in questione era Abdulchakim Ismailov, che aveva l’affascinante peculiarità di aver combattuto quasi tutte le battaglie principali sul fronte orientale (fra le quali Stalingrado) e che, certamente, rappresentava al meglio il grido di battaglia “Da Mosca a Berlino” (Ismailov è stato decorato, più tardi nel 1996, come “Eroe della Federazione Russa”).
Il giorno seguente, il generale Helmuth Weidling, comandante della difesa di Berlino, annunciò la resa con il seguente comunicato trasmesso alle truppe tedesche:
Berlino, 2 maggio 1945. Il giorno 30 aprile il Führer si è suicidato, abbandonando in tal modo tutti coloro che gli avevano prestato giuramento di fedeltà. Ligi agli ordini del Führer, voi soldati tedeschi eravate pronti a continuare a combattere per Berlino benché le vostre munizioni stessero per finire e la situazione complessiva rendesse insensata un’ulteriore resistenza. Dispongo ora la cessazione di ogni forma di attività bellica. Ogni ora che voi dovreste continuare a combattere non farebbe che protrarre le terribili sofferenze della popolazione civile e dei nostri feriti. D’accordo con il comando supremo delle truppe sovietiche, vi chiedo di deporre immediatamente le armi. Weidling, ex comandante della difesa della piazza di Berlino.
Alcune sacche di resistenza rifiutarono di arrendersi e combatterono fino al pomeriggio dell’8 maggio 1945.
Da allora, il 9 maggio è il “Giorno della Vittoria”, festeggiato in Russia, e in tutti i paesi ex-sovietici. La “Bandiera della Vittoria”, l’originale issata sul Reichstag nel 1945, è protetta addirittura da una legge della Federazione Russa: stabilisce che dovrà essere conservata per sempre in un posto sicuro, ma accessibile al pubblico, e che dovrà essere impiegata ogni 9 maggio, durante le celebrazioni.
Finita la battaglia, i soldati sovietici incisero delle scritte sulle mura del Reichstag, quasi a voler lasciare un segno del loro passaggio, a celebrare la fine del massacro e la loro partecipazione alla creazione della nuova pace.
Tra le altre si può leggere:
«Da Leningrado a Berlino. Bondarenko»
«Da Kiev a Berlino. Krasotkin»
«Da Mosca a Berlino. Maggiore Jakovlev»
Queste scritte sono ancora visibili sui muri interni del nuovo Bundestag di Berlino.
Fonti
Libri:
Antony Beevor, Berlino 1945, BUR, Milano 2006 (ristampa).
David M. Glantz e Jonathan House, La Grande Guerra Patriottica dell’Armata Rossa. 1941-1945, Libreria Editrice Goriziana, Bologna 2013 (terza edizione).
Peter Antill, Berlino 1945. La fine del Terzo Reich, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2015.
Martin Gilbert, La grande storia della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, Milano 2009 (ristampa).
Jean Lopez, Infografica della Seconda Guerra Mondiale, L’Ippocampo, Milano 2019.
Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale, Sadea – Della Volpe Editori, Firenze 1965.
Collegamenti Esterni:
1939-1945 La Seconda Guerra Mondiale, Episodio “19”, condotto da Paolo Mieli, disponibile su RaiPlay