Da soldato nazista a eroe del Manchester City
Bert Trautmann
Il calcio è uno sport di squadra e, come tutti gli sport da praticare in gruppo, senza una buona prestazione collettiva è molto complicato riuscire a vincere le partite. C’è però un ruolo nel quale si è completamente soli: il portiere, l’ultimo baluardo, colui che ha nelle proprie mani il destino della partita, che diviene un eroe quando salva il risultato ma anche il primo colpevole se non arriva sul pallone. Chi può desiderare un ruolo così? Sicuramente coloro che hanno coraggio da vendere e una determinazione tanto grande quanto l’esultanza dopo un rigore parato. Questa è la storia di Bert Trautmann, ex soldato tedesco nella seconda guerra mondiale che, nell’Inghilterra ostile dei primi anni ’50, divenne il beniamino di migliaia di tifosi, parando con successo i pregiudizi e l’ostilità di un popolo ancora ferito dalle bombe della Luftwaffe.
Bernhard Carl Trautmann nasce a Brema il 22 ottobre del 1923 e, fin da bambino, sviluppa una grande passione per il calcio divenendo tifoso del Werder, la squadra locale. Nel 1933, il Partito Nazionalsocialista di Hitler vinse le elezioni e, con il repentino cambio della società di Weimar in quella nazista, il piccolo Bernhard, di appena 10 anni, fu inquadrato nella Gioventù hitleriana. Crescendo in questo clima, che fin dalla più tenera età preparava i giovani alla guerra, nel 1940, a soli 17 anni, si arruolò volontario nella Luftwaffe, divenendo operatore radio dei paracadutisti, destinato al fronte orientale.
In guerra, Bernhard diventa un uomo, vivendo tutti gli anni dell’immane conflitto con uno spirito di adattamento e sacrificio senza eguali: durante l’invasione dell’Unione Sovietica, venne catturato dai russi ma riuscì, miracolosamente, a fuggire. Per questa e altre importanti gesta, ottenne cinque medaglie al merito tra le quali spicca la croce di ferro, la più alta onorificenza attribuita ad un soldato al fronte. Trasferito in Francia, fu catturato dalle truppe locali ma riuscì a fuggire nuovamente e a combattere in Olanda dove, per sopravvivere, si finse morto per tre giorni tra le rovine di una scuola di Arnhem. Combatté fino al 1945 quando, a guerra ormai praticamente finita, fu catturato dagli americani e spedito in un campo di prigionia ad Ashton, in Inghilterra.
Nel campo, i prigionieri tedeschi avevano una vita durissima, costretti a lavorare per aiutare a ricostruire quel paese che le loro bombe avevano distrutto e, nel poco tempo libero a loro disposizione, uno degli svaghi concessi era, ovviamente, il football. Bernhard era un grande appassionato e si iscrisse alla squadra dei prigionieri, dove giocava come centrocampista difensivo, mostrando un’ottima tecnica di base e una grande forza fisica, grazie ai suoi 189 cm, unite ad un coraggio senza pari che gli facevano affrontare convinto ogni contrasto di gioco.
Un giorno però, durante una partita, il portiere della sua squadra fu costretto a uscire dal campo per infortunio e, per non interrompere il match, Trautmann si offrì volontario per sostituirlo: nell’incredulità generale, si esibì in una serie di parate spettacolari che permisero alla sua squadra di vincere la partita. Quel match, però,segnò una svolta nella vita di Bernhard. Un secondino del carcere,spettatore della partita, magneticamente attratto da quelle meravigliose parate, lo segnalò ad una piccola squadra locale, il St. Helens Town F.C. Uscito di prigione nel 1948, il St. Helens gli propose un contratto da semi professionista che, con gioia, Bernhard accettò. C’era però un problema: tutti, a cominciare dai suoi compagni di squadra, non erano contenti di avere un tedesco tra le loro fila e i primi allenamenti, così come le prime partite, furono un tripudio di spintoni, sputi e insulti dagli spalti. Bernhard, però, era troppo appassionato al calcio per demordere e iniziò a farsi amare da tifosi e compagni facendo ciò che sapeva fare meglio: impedire agli attaccanti avversari di fare gol. Il ragazzone biondo, sempre più un idolo per la cittadina di Ashton, venne ribattezzato Bert dai suoi tifosi e dai giornalisti locali, e la gente iniziò ad amarlo a tal punto che, quando decise di andare a trovare la sua famiglia, in Germania, la popolazione si unì per aiutarlo. Disse in proposito in un’intervista al Guardian nel 2000:
Dopo la fine delle ostilità decisi di andare a visitare la mia famiglia che non vedevo da sei anni. Alcuni degli abitanti della zona mi diedero un cesto con tutta roba che allora era razionata, come burro, zucchero, pancetta, e una busta con 50 sterline. Mi fecero commuovere.
Nel 1949, il St. Helens giocò un’amichevole con il Manchester City, che militava in First Division e, in quella partita, il ragazzone biondo mise in mostra tutte le sue enormi qualità a tal punto che, alla fine del match, i dirigenti del City decisero di proporgli un contratto da professionista.
Il Manchester City, però, non era una squadra di periferia ma una delle squadre più popolari in Inghilterra e, subito dopo la presentazione del giocatore, sorsero due difficili problemi da fronteggiare: innanzi tutto, tornarono alla luce, amplificati, i problemi vissuti nei primi mesi al St. Helens: migliaia di persone scesero in piazza contro la scelta del City di affidarsi ad un ex nazista, gli abbonati minacciarono uno sciopero in massa, la comunità ebraica si unì ferocemente alla protesta, chiunque incontrasse Trautmann per strada non perdeva occasione per insultarlo, minacciarlo e, persino, percuoterlo. Alla fine, fu decisivo l’intervento del Capo Rabbino di Manchester che, dopo aver parlato con Trautmann, riconobbe in lui grandi qualità umane e, in un discorso pubblico, invitò la folla alla tregua. L’altra grande difficoltà era legata a Frank Swift, il portiere che Bert doveva sostituire, una vera leggenda del Manchester City, che aveva vinto la FA Cup, la coppa di lega inglese, il trofeo più antico e prestigioso in Gran Bretagna, nel 1934 ed il Campionato nel 1937. Nonostante queste enormi difficoltà, Bert divenne il portiere del City ed ebbe il suo esordio nella difficile trasferta di campionato contro il Fulham, a Londra: all’inizio della partita, tutto il pubblico unito lo fischiò senza pietà, urlando “Heil Hitler” ogni volta che toccava il pallone ma, con lo scorrere dei minuti sul cronometro, fu chiaro a tutti che quel gigante tedesco stava salvando il risultato. Alla fine, il City perse per 1-0 ma Bert aveva parato decine di tiri nello specchio della porta. A poco a poco, i tifosi iniziarono ad apprezzarlo e a sostenerlo a tal punto che, quando nel 1952 lo Shalke 04, una squadra tedesca, propose al City di acquistare il giocatore e di riportarlo in Germania, sia la società che il portiere risposero con un secco no! Se il rifiuto del City poteva apparire scontato quello del giocatore fu una scelta davvero sorprendente: all’epoca, infatti, giocare all’estero significava, di fatto, non avere nessuna possibilità di essere convocati in nazionale tanto che questo rifiuto costò a Trautmann la vittoria nel Campionato del Mondo (la Germania vinse infatti nel 1954).
Trautmann disse più volte di non essersi mai pentito di questa scelta ma era tempo per lui di vincere qualcosa nella sua carriera inglese, per scrivere il suo nome nella storia del calcio d’oltremanica. La prima occasione si palesò l’anno successivo: nel 1955, il City raggiunse la finale dell’F.A.Cup. Trautmann era già nella storia della competizione, diventando il primo tedesco a giocare una partita di quel prestigio ma, nemmeno un minuto dopo l’inizio della partita, il City era già sotto. La finale fu vinta dagli avversari del Newcastle United per 3-1. Solo un anno dopo, il 5 maggio del 1956, il suo Manchester City raggiunse nuovamente la finale della competizione e stavolta, contro il Birmingham, i Citizens entrarono in campo con tutta la voglia di riscatto rispetto all’anno precedente: nello storico Stadio di Wembley, stracolmo di tifosi, a 22 minuti dal fischio finale, la squadra di Manchester conduceva per 3-1…
Ma è in questo momento che il ragazzone tedesco entrò nella leggenda del club e del calcio. A 17 minuti dalla fine, il Birmingham mise un pallone forte e teso in area di rigore sul quale si avventarono sia Bert che l’attaccante avversario Peter Murphy: i due si scontrarono davanti la porta, con la testa del portiere che impattò violentemente sul ginocchio dell’attaccante. Trautmann perse i sensi. Dalla panchina accorse il medico della squadra che riuscì a rianimarlo grazie ad alcuni sali e ad una spugna bagnata ma Bert era vistosamente in difficoltà: cadde a terra e si rialzò tre volte ma non voleva saperne di uscire. Il collo gli faceva un male cane ma all’epoca non esistevano sostituzioni e, pur di non lasciare i suoi in inferiorità, decise di immolarsi. Bert non poteva saperlo ma il dolore che sentiva era dovuto ad un infortunio gravissimo: nell’impatto, una vertebra cervicale si era spezzata in due ma la violenza dell’urto aveva fatto sì che quella sotto, spostandosi a sua volta, la mantenesse al suo posto, impedendo al collo di cedere e di ucciderlo. Ignaro di questo pericolo e deciso a non mollare, Trautmann fece altri due interventi decisivi, reggendosi il collo con la mano con cui non interveniva sul pallone. L’arbitro, dopo minuti che sembrarono ore, fischiò e Bert poté esultare assieme ai compagni per la storica vittoria della Coppa. Scoprì cosa gli era accaduto solo 3 giorni dopo quando, dopo una lastra, i medici gli dissero: “dovresti essere morto o, almeno, paralizzato!”. Rabbrividì e comprese di doversi immediatamente fermare da ogni attività per curarsi al meglio.
La notizia non rimase privata e, su tutti i giornali, si iniziò a parlare del portiere che aveva giocato e vinto con il collo spezzato! I tifosi iniziarono ad amarlo: chiunque lo incontrasse per strada, stavolta, lo fermava per stringerli la mano, ringraziarlo, per chiamarlo eroe, il calciatore che aveva messo in gioco la sua stessa vita per vincere la coppa! Disse in proposito:
Tutti mi cominciarono a chiamare eroe ma la verità è che se io all’epoca avessi saputo di avere un osso del collo rotto mi sarei precipitato fuori dal campo e in ospedale.
Ormai era nella storia del calcio inglese e, nel 1956, fu inserito nella squadra dell’anno del campionato inglese, divenendo il primo straniero a farne parte. Purtroppo, però, una serie di terribili disgrazie lo colpirono: nel 1957, suo figlio di appena 5 anni fu investito e ucciso da un pirata della strada e sua moglie non si riprese mai da quel dolore; nello stesso momento, le sue prestazioni calarono vistosamente a causa del difficile ritorno in campo dopo l’infortunio. Arrivò addirittura a chiedere la cessione per non danneggiare il Club ma la dirigenza del City rispose che una leggenda dei Citizens non sarebbe mai stata abbandonata. Fu così che, spronato dalla fiducia, riuscì a tornare lo straordinario talento che tutti avevano visto fino all’anno precedente. Riuscì a portare avanti la sua carriera fino al 1964 quando annunciò il ritiro e giocò l’ultima partita, davanti ad oltre 60 mila tifosi, giunti appositamente per salutarlo come si fa con una bandiera che, tra campionato e coppa, aveva raggiunto le 545 presenze. Dopo il ritiro, si dedicò all’allenamento per alcuni anni, fu l’accompagnatore ufficiale della Germania nei mondiali inglesi del 1966 e, attraverso il Ministero degli Esteri della Germania Ovest, fu promotore dello sviluppo del calcio nei paesi del terzo mondo. Nel 1990, si trasferì in Spagna dove le temperature calde lenivano i dolori articolari al collo che non lo abbandonarono mai per tutta la vita.
Si spense nella sua casa spagnola, all’età di 90 anni, il 19 luglio del 2013. Nel museo del Manchester City, visitabile all’interno dell’Etihad Stadium, è presente una sua statua. Nel 2004, fu nominato Ufficiale all’Ordine dell’Impero Britannico.
Gordon Banks, considerato il portiere inglese più forte della storia del football, disse di lui:
Per me la cosa più importante è che era un incredibile uomo di sport e giocava ogni partita come se ci dovesse qualcosa, se dovesse qualcosa a tutti perché era stato un prigioniero di guerra tedesco ed era stato comunque accettato. Per me era più vero il contrario, noi avremmo dovuto essere grati a lui per essere rimasto e averci mostrato che gran portiere era. Io di sicuro ho imparato molto da lui.
Fonti
Video:
Programma Rai “Rabona” del 30/11/2018, condotto da Andrea Vianello.
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