Di libertà e mistero nella terra di nessuno
"Il giunco mormorante" di Nina Berberova
L’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà del mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità
“No man’s land”, così la scrittrice russa Nina Berberova definisce quella terra di nessuno che scorre parallelamente alla nostra vita ‘visibile’, quella sfera spazio-temporale di cui gli altri non sono a conoscenza, dove siamo totalmente padroni di noi stessi. In questa “no man’s land”, percepita da Berberova sin dalla giovinezza e concettualizzata nell’opera Il giunco mormorante (Mysljaščij trostnik, scritta nel 1958 e tradotta per Adelphi nel 1990 da Donatella Sant’Elia), gli uomini abbandonano con fermezza qualsiasi inibizione per essere colpiti da improvvise intuizioni – realizzazioni che James Joyce non esiterebbe nel definire vere e proprie epiphanies – ed inaspettatamente comprendere, scoprire.
In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza
Mistero e libertà: due parole sulle quali Berberova insiste a più riprese. Quest’altra vita – di cui non tutti e non sempre avvertiamo il bisogno – si insinua allora nella smania di libertà in cui l’uomo riesce a percepirsi come singolo, fuori dall’ordinata inviolabilità del creato. Una disillusa voce narrante femminile tenta di opporsi alla sovranità dell’eccessiva coscienza, quella autentica e assoluta malattia dostoevskijana, e mostra al lettore come vivere in una “proprietà segreta” e lasciarsi trasportare dall’autenticità delle emozioni, dalla spontaneità dei desideri, dagli istinti più veri e dai ricordi remoti e gelosamente nascosti dall’invadenza e dall’importuna curiosità del mondo.
A volte mi dicevo persino: forse hai pensato troppo in tutta la tua vita. Gli altri non pensano e vivono felici. Dài, per una volta concediti la libertà di non pensare
La scrittrice tratteggia nell’arco di un breve, ma toccante ed intenso romanzo piccoli universi celati, in cui l’io narrante racconta e descrive con acuta lucidità i meccanismi dell’animo umano. La protagonista si auto-osserva e anatomizza con attenzione chirurgica il proprio mondo interiore per giungere ad uno straniamento da se stessa, ad uno sdoppiamento. Ne risulta una dimensione altra, assolutamente intima, diritto inalienabile di ciascun individuo nella quale non è necessario confrontarsi con la ‘realtà esterna’ se non per cercare conforto, placare l’arsura bevendo avidamente dal calice della sofferenza umana o, meglio, russa.
Quanta sofferenza, qui, e quanta ce ne sarà ancora, non solo sofferenza in genere, ma sofferenza russa, quella nel cui alveo anch’io oggi mi trovo
Come un giorno, guardando la buia Parigi del tempo di guerra, penso: quante sofferenze ci sono state qui, russe e del mondo intero, quanto patire; e ora c’è anche una goccia della mia sofferenza, piccolissima e grandissima
Realtà esterna che, tuttavia, irrompe prepotentemente tra le pagine, facendo emergere attraverso un susseguirsi di “mentre” – rapide, seppur dettagliate inquadrature cinematografiche – una quasi incolmabile frattura tra la grande Storia mondiale e la storia dei singoli personaggi.
Il giorno dell’occupazione di Parigi, mentre l’esercito tedesco la percorreva da nord-est verso sud-ovest, nel nostro appartamento la vita continuava – come del resto continuava in molti altri luoghi della città: qualche cinema era aperto, e la metropolitana non si fermò un solo istante. Fu una strana giornata, difficile da raffigurarsi
Poi la vita riprese a scorrere rapida. E soltanto la mia no man’s land restò come era
Per gli emigrati russi di cui la protagonista si fa portavoce, l’Europa della prima metà del Novecento è una ‘realtà esterna’ complessa ed intricata nella quale lo spazio e il tempo si confondono, offuscandosi, per lasciare il posto ad una terribile, implacabile nostalgia e ad un unico doloroso interrogativo: quando torneremo in Russia? Tre città – Parigi, Stoccolma e Venezia – si alternano in un reticolo letterario in cui lo scarto tra presente e passato viene annullato, appiattito. Lo scorrere del tempo viene deformato e persino i giorni della settimana assumono nomi altri scanditi da un’unica grande legge: quella della segreta intimità di due individui che condividono uno stesso impercettibile e misterioso frammento di terra.
Ne avevamo parlato già all’inizio della nostra storia, avevamo ricordato il precetto: «onora il giorno del sabato; per sei giorni lavorerai e farai ogni opera tua; ma il settimo giorno è sabato…» prendilo a te stesso per te; e ognuno di noi due aveva questo «sabato» (lo stesso per entrambi), e per distinguerci dagli altri lo chiamavamo «martedì». «Diritto al martedì» dicevamo allora
Una zona d’ombra abitata con coraggio e risolutezza dalla voce narrante che, caparbia, non scende a compromessi neppure quando la posta in gioco rappresenta per lei la vera ragione di vita. Un grido di affrancamento e riscatto, un’ultima dichiarazione di libertà ed estrema consapevolezza chiudono definitivamente dall’interno la porta della “no man’s land”, dove alcuna ingerenza verrà più tollerata. Come se non fosse mai realmente esistita, in un attimo svanisce Venezia e, assieme a lei, svanisce e si dissolve dagli indiscreti sguardi estranei il mondo segreto della protagonista.
Il giunco pensante mormora, protesta