“Don’t Worry Darling”
un incubo a occhi aperti
There is beauty in control. There is grace in symmetry. We move as one.
Controllo e armonia: sono queste le parole d’ordine della comunità dove vivono Alice e Jack, i due protagonisti interpretati da Florence Pugh e Harry Styles, nel nuovo film di Olivia Wilde, Don’t Worry Darling.
Una società formata da coppie giovani, di bell’aspetto e benestanti, tanti Barbie e Ken. Ogni mattina le mogli accompagnano nel vialetto di casa i mariti, che salgono su auto tirate a lucido per recarsi a lavoro. Nessuna di loro sa di preciso in cosa consista il misterioso progetto Victory in cui sono coinvolti, ma tutte, o quasi, nutrono una cieca fiducia in quello che viene detto. La quotidianità di queste donne si divide tra faccende domestiche, uscite con le amiche e lezioni di ballo, in attesa che i consorti tornino a casa dove hanno preparato per loro deliziosi banchetti.
Tutti sembrano felici di questa vita. Il caos è bandito, non si pongono domande e agli abitanti è richiesta lealtà in cambio di uno stile di vita considerato perfetto. Una pubblicità anni Cinquanta che celebra un mondo in cui vigono dei ruoli ben definiti, una società utopica che nasconde, non troppo bene, una distopia che pian piano mostra il suo vero volto, diventando un thriller dai tratti horror.
Mosse di danza all’apparenza aggraziate in cui tutte si muovono allo stesso modo, ma che indicano un controllo asfissiante; riflessi allo specchio che non corrispondono alla realtà; un guscio perfetto all’esterno che si scopre vuoto dentro; i vetri di una casa perfettamente pulita, soltanto in superficie. Delle allucinazioni squarciano il velo, e qualcosa irrompe in quella stucchevole perfezione che tradisce la finzione in cui tutti si muovono, consapevoli o meno. Ciò che per alcuni è un sogno, per altri si trasforma in un incubo.
Quando qualcuna comincia a mostrare segni di incertezza o ribellione, devianza inaccettabile, questa insofferenza è considerata follia, anzi isteria, e viene risolta tramite farmaci che intontiscono la vittima per farla nuovamente adattare all’ordine imposto. Si tratta di gaslighting, una manipolazione psicologica che deve il suo nome proprio a un film degli anni Quaranta con Ingrid Bergman, tratto da un’opera teatrale. Un atteggiamento che va al di là della distopia cinematografica e ha radici storiche. Intorno agli anni Cinquanta, infatti, vi fu un boom nell’utilizzo di psicofarmaci da parte delle donne, che in questo modo erano mantenute più docili. Veniva logorata la loro autostima, dopo averne messo in dubbio le capacità mentali e aver instillato il senso di colpa perché osavano lamentarsi, invece che essere grate della vita agiata che consentiva loro di rimanere “tranquille” in casa mentre gli uomini si occupavano di mantenerle.
Dopo il brillante Booksmart, in cui si divertiva a rovesciare gli stilemi tipici del teen movie, per il suo secondo lungometraggio Olivia Wilde torna a collaborare con la sceneggiatrice Katie Silberman prendendo ampio spunto da note opere del genere distopico, e riservandosi anche un piccolo ruolo all’interno del cast artistico. La prima parte di Don’t Worry Darling non spicca per originalità, rischiando di annoiare. La società messa in piedi appare da subito qualcosa di sfacciatamente finto, e ci si chiede come mai la presa di coscienza della protagonista non sia avvenuta prima. I momenti che svelano i punti deboli di questa pantomima si dilungano troppo, mentre la scoperta, lo scontro e la vera e propria azione si concentrano soprattutto nella parte finale, lasciando lo spettatore con il fiato sospeso, come la protagonista.
Una specie di Truman Show in cui la distopia incontra tematiche femministe. Le donne vivono in funzione dei mariti e del loro successo, in quello che viene spacciato come il migliore dei mondi possibili. Il continuo ripetersi di gesti quotidiani, atteggiamenti meccanici che si compiono senza più riflettere, nel loro essere sempre uguali a sé stessi non risultano rassicuranti, ma inquietanti.
Come Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella, Olivia Wilde mostra come il ritorno al passato venga spesso fatto passare come la soluzione ai problemi contemporanei, regredendo a una mentalità che non è mai stata debellata del tutto: quella che vede gli uomini voler prevalere e controllare le donne, impadronendosi delle loro vite.
Protagonista assoluta è Florence Pugh, che da alcuni indizi comincia a insospettirsi e indagare, andando oltre i limiti, innanzitutto fisici, che le sono stati imposti. L’attrice ci regala un’ottima performance, mentre Harry Styles pur non reggendo il paragone, soprattutto nei momenti di maggior pathos, risulta comunque adatto per il ruolo grazie alla sua aria rassicurante. Il suo aspetto da bravo ragazzo simboleggia quasi l’apoteosi della banalità del male.
Mancano degli alleati: alcune donne scelgono di rinunciare alla propria libertà e auto-imprigionarsi pur di raggiungere il potere o continuare a vivere secondo un certo standard. E manca anche un antagonista capace di reggere il confronto con l’eroina, perché il male è più incarnato dalla comunità stessa che da un singolo individuo. L’ideatore del progetto Victory non possiede un carisma particolarmente convincente, ma è un individuo meschino che è stato capace di sfruttare a sua volta la meschinità e la mediocrità della gente che lo circonda per creare il riflesso di un sogno malato.
Così come accade nella società immaginata, non tutti gli ingranaggi del film funzionano. Nella parte finale Don’t Worry Darling però si risolleva e come ogni buona distopia porta con sé il dubbio che quanto vediamo non è poi così lontano da certe realtà e basterebbe poco per trasformare il mondo contemporaneo in una messa in scena anni Cinquanta. L’angoscia e la tensione crescenti che si sono accumulati durante la lunga parte iniziale fanno crollare quella gabbia patinata e si trasformano finalmente in rabbia e azione.
Il ritornello Life could be a dream di Sh-Boom, uno dei brani della colonna sonora, nasconde un incubo a occhi aperti, qualcosa di già visto. «The Same As It Was»per citare, rovesciandola, la celebre canzone di Styles, un ciclo gattopardiano in cui tutto cambia per restare com’era.