Hao Jingfang e “Pechino pieghevole”
le infinite solitudini della post-metropoli
Alle prime luci dell’alba, la città si piegava e spariva dentro la terra. I palazzi si inchinavano come umili servitori, si abbassavano con deferenza, toccandosi i piedi con la testa, per chiudersi su se stessi. Poi si spezzavano e si piegavano ancora in due per infilare capo e braccia negli spazi vuoti. I poliedri compatti che si venivano a formare ruotavano fino a comporre un gigantesco e perfetto cubo di Rubik pronto a sprofondare in un lungo sonno. A quel punto la terra ruotava. I singoli lotti giravano attorno al proprio asse di centottanta gradi, rivelando gli edifici sull’altro lato che si aprivano ergendosi nel cielo grigio azzurro come animali che escono dal letargo. L’isola della città si stagliava nella luce arancione, aprendosi e raddrizzandosi in mezzo alle fitte nuvole grigie. I camionisti provati dalla fame e dal sonno ammiravano lo spettacolo della metropoli che si rinnovava all’infinito.
Pechino pieghevole (2016), tradotto in italiano nel 2020 da Silvia Pozzi per Add editore, è una bella raccolta di undici racconti ambientati in un mondo non ancora del tutto presente, ma nemmeno puramente ipotetico. Più o meno fantascientifiche, in qualche misura distopiche, le situazioni descritte da Hao non faticano a raggiungere la vita dei giovani lettori contemporanei, a prescindere da dove si trovino.
Anagraficamente, Hao Jingfang non è molto più grande dei suoi lettori; è nata nel 1984, a Tianjin. Ha studiato fisica e poi economia alla prestigiosa Tsinghua University di Pechino ed è tra i nomi più promettenti del luminoso panorama sci-fi cinese. Se seguite bacchette corsare e avete letto la biografia di Mo Yan, noterete da subito una sostanziale differenza: Hao non ha vissuto gli anni del maoismo, non ha potuto testimoniare di persona il passaggio dal sistema collettivista a quello capitalista. È nata in un’epoca in cui la Cina aveva già abbandonato l’ideologia della lotta di classe per intraprendere la trasformazione in potenza economica. Una delle problematiche fondamentali di questa fase è la disuguaglianza.
La volontà di cancellare le differenze di classe è stata spazzata via, rimpiazzata da sforzi di natura opposta, orientati alla competizione e all’acquisizione di ricchezza e benessere. Una tendenza che si riflette sulla popolazione sotto forma di disparità e pressione psicologica. “Pressione” (yali) è una delle parole più usate dai giovani cinesi per riferirsi al percorso accademico e lavorativo, alle aspettative familiari, al mercato immobiliare e alle relazioni interpersonali. In un contesto di questo tipo, è facile percepire un senso di alienazione, tema dominante nei racconti di Hao Jingfang.
Pechino pieghevole è il primo dei testi presentati, che dà il nome alla raccolta. La scrittrice ci proietta in una Pechino3 appositamente pensata per garantire l’ordine e la coesione, attraverso un sistema di architettura sociale che suddivide gli abitanti in tre dimensioni spaziotemporali separate e interconnesse. La differenza fondamentale tra i settori di Pechino3 consiste nella ripartizione del tempo: agli abitanti dello Spazio Uno, più benestanti e raffinati, sono concesse ventiquattro ore piene. Qui abitano cinque milioni di persone, quasi tutti diplomatici, studiosi, scienziati, alti funzionari. Seguono sedici ore per gli abitanti dello Spazio Due (venticinque milioni) e sole otto ore per i cinquanta milioni di abitanti dello Spazio Tre. A questi ultimi sono affidate le mansioni più umili, come la raccolta e l’incenerimento dei rifiuti, di cui si occupa il protagonista Lao Dao. La ripartizione del tempo rivela fin da subito come la disuguaglianza sia la caratteristica di fondo del sistema di Pechino3.
Una simile suddivisione sembra impensabile nel mondo reale, dove diamo per scontato che il tempo sia una risorsa democratica, assegnata a tutti in modo più o meno coerente; una giornata è composta da ventiquattr’ore per chiunque, in fondo. Il racconto di Hao Jingfang ci suggerisce una lettura più sottile della nostra realtà: in un sistema improntato all’efficienza e profondamente basato sulla ripartizione in classi, non tutti dispongono dei propri tempi e spazi in egual misura.
Chi vive ai margini della società si trova talvolta costretto a ritagli di tempo ampiamente insufficienti, se paragonati a quelli dei più benestanti (ne è un esempio la differenza tra chi dispone di un’auto e chi invece è costretto a muoversi con i mezzi pubblici). Lao Dao è un netturbino che, per esigenze che oltrepassano la sua volontà, viene catapultato nello Spazio Uno, dove vede con i propri occhi chi sono gli uomini che decidono al posto suo e amministrano le funzioni espletate dagli abitanti dello Spazio Tre. Osserva il grande divario tra la sua gente e la upper-class con sostanziale distacco, senza avanzare giudizi. Non pensa certo di ribellarsi; è coinvolto in una situazione in cui non può e non vuole rappresentare altro che un semplice ingranaggio.
È essenzialmente solo e rassegnato; non riesce ad arrabbiarsi di fronte al convegno in cui un alto funzionario dello Spazio Uno ipotizza l’automatizzazione dello smaltimento dei rifiuti. La crudeltà del ragionamento non gli sfugge, ma «che senso aveva vederci chiaro se poi non potevi fare nulla per cambiare? E lui non ci vedeva nemmeno chiaro […]. Era consapevole di essere soltanto un numero. Un numero insignificante in mezzo ad altri 51.280.000». Intorno a lui, Pechino3 continua a ripiegarsi nella propria bidimensionalità.
Come lui, anche i personaggi dei racconti successivi sono soggetti a una spiccata alienazione. Non ci sono esempi di autodeterminazione o di sovversione del sistema. L’atmosfera è, al contrario, fondamentalmente fredda, quasi anestetizzata. Le situazioni presentate sono senza dubbio particolari; un’orchestra che suona una composizione le cui vibrazioni devono far esplodere l’universo, una Londra dove solo gli artisti sono al riparo dagli attacchi dei metalieni, una clinica dove i pazienti sono sottoposti a iniezioni di autostima, casi di clonazione e altri temi di questo tipo. Ma lo scenario di fondo è sempre quello del nostro mondo.
Non parliamo dunque di fantascienza in senso stretto, bensì di ultra-irrealismo, un genere che in Cina riscuote grande successo. Sono molti gli autori che fuoriescono dai canoni del realismo per aggirare gli ostacoli della censura, ma non si tratta solo di un espediente. Il governo cinese promuove questo genere come strumento di soft-power, inquadrandolo in un ben più ampio progetto culturale; Pechino pieghevole è stato pubblicato con la cooperazione dell’Istituto Confucio di Milano. Gli Istituti Confucio costituiscono una rete internazionale affiliata al Ministero dell’Istruzione della RPC, e svolgono un’importantissima opera di diffusione della lingua e cultura cinese nelle Università e in generale fuori dalla Cina. Tuttavia, sono spesso al centro di polemiche per la natura parziale e vicina al potere centrale.
Per gli appassionati, segnaliamo che l’opera più celebre della nuova fantascienza cinese è Il problema dei tre corpi (Mondadori, 2017, nella traduzione di Benedetta Tavani), di Liu Cixin, vincitrice come Pechino pieghevole del prestigioso Hugo Award. In generale, l’estetica cyberbunk è di tendenza tra i giovani cinesi, anche nel campo della moda e del design. La presenza dell’elemento high-tech nella letteratura sci-fi contemporanea contribuisce inoltre all’immagine di una Cina ipertecnologica, proiettata nel futuro e sede di un inarrestabile sviluppo in materia di intelligenza artificiale e internet delle cose. Allo stesso tempo, offre un importante spunto di riflessione su temi legati al progresso tecnologico, quali solitudine e alienazione, che hanno molto da dire a tutti noi abitanti dell’era digitale.
La dimensione raccontata da Hao Jingfang è vicina al nostro mondo, popolata da personaggi tutto sommato non troppo lontani da noi, come un ricercatore alle prese con una vita precaria dopo il dottorato o una giovane violinista trasferitasi in Inghilterra. La concretezza nella fantascienza di Hao Jingfang rende il suo libro accessibile e apprezzabile anche per il pubblico meno avvezzo allo sci-fi, concedendoci più che altro una lente che ci permette di guardare alla società cinese (ma anche occidentale) da molteplici prospettive, un filtro cubista che dalle sue mille angolazioni ci apre gli occhi sui rischi del sistema gerarchizzato e alienante del post-capitalismo metropolitano.
Quando il primo imperatore della Cina ordinò il rogo dei libri, i letterati e poi i loro allievi impararono a memoria i Classici confuciani per ritrascriverli un secolo dopo, quando la situazione era mutata. Un libro non scompare se lo si memorizza […]. Questo è il nostro destino. Non contiamo nulla, non diamo nell’occhio, siamo magri e brutti, ma in alcune occasioni ci distinguiamo dagli altri. Non so come ti prendano in giro di solito, ma tu puoi scegliere di accettare la tua unicità. Scegliere di essere se stessi è una prova di coraggio.
di F. Ceccarelli