I moti di Stonewall
It’s a Revolution!
Questa frase, pronunciata esattamente cinquant’anni fa, la notte tra il 27 e il 28 giugno 1969, riecheggiò nella Christopher Street, all’altezza dei civici 51-53, fuori dallo Stonewall Inn, un pub nel Greenwich Village di New York.
L’omosessualità, allora, era ancora considerata un reato: il pub era uno dei pochi locali pubblici dove gay e lesbiche potevano sentirsi “liberi”, in una società che li ripudiava. Le retate della polizia erano frequenti e, davanti alle uniformi e al rischio di violenze o arresti, la reazione era normalmente la rassegnazione e la fuga generale. Ma quella notte le cose andarono diversamente… e Rivoluzione fu.
La società americana degli anni ’50 e ‘60 era fortemente condizionata dal clima della Guerra Fredda. Il nemico sovietico non attaccava militarmente ma proponeva un modello sociale ed economico opposto a quello statunitense e, per questo, veniva considerato una minaccia ai valori e alla stessa sopravvivenza dello Stato Americano. Questo pensiero si espresse pienamente nella figura del Senatore Repubblicano Joseph McCarthy. Capo di una commissione per la sicurezza nazionale, si prodigò a tal punto nella lotta al Red Scare (terrore rosso), utilizzando metodi al limite della legalità e della maldicenza pur di trovare capri espiatori, da far nascere il termine maccartismo che, sull’American Heritage Dictionary, viene definito come «la pratica di pubblicizzare accuse di slealtà politica o sovversione con un insufficiente riguardo per le prove e l’uso di metodi sleali d’investigazione e d’accusa per eliminare gli avversari politici.».
Nel contempo, gli omosessuali erano considerati persone immorali, prive di scrupoli e facilmente corruttibili proprio per il loro stile di vita; ci volle poco per accomunarli ai comunisti e far nascere il sospetto, e la paura, che potessero essere ricattati o attratti da un modello diverso da quello che li escludeva dalla società. Chiunque fra loro lavorasse all’interno di strutture statali o governative poteva essere una potenziale minaccia alla sicurezza nazionale, poteva essere una spia del nemico. Il passo fu breve e si passò dal “Red Scare” al «Lavender Scare» (terrore lavanda), in riferimento al termine “Lavender lads” (ragazzi lavanda), usato dal Senatore Everett Dirksen per schernire gli omosessuali. In migliaia furono licenziati, il solo sospetto di omosessualità li tacciava di spionaggio, divennero il nuovo nemico da combattere per salvaguardare i valori morali della middle class tanto che Kenneth Wherry, un politico Repubblicano, disse:
…difficilmente si riesce a distinguere un omosessuale da un sovversivo…
Il clima era veramente pesante e gli effetti di questo atteggiamento si protrassero per molto tempo, segnando la vita dei singoli, rovinando l’immagine di molti artisti e persone comuni, lasciando senza lavoro impiegati, anche solo per una diceria o per vendette private. Per gli omosessuali la vita divenne veramente difficile.
Luoghi come lo Stonewall Inn erano punti di riferimento per la comunità omosessuale ma la direzione di questi locali, essendo illegale la stessa omosessualità, era nelle mani della malavita americana che, pur di guadagnare a spese di un pubblico respinto in tutti gli altri luoghi di svago, corrompeva la polizia, come accadeva per tutte le attività illecite, al fine di non avere problemi. Nonostante questo, le retate erano frequenti. Il motivo del controllo era sempre lo stesso: procedere a periodici rastrellamenti della clientela che non indossasse almeno tre oggetti ritenuti gender appropriate e schedarla, nonostante non arrecassero disturbo a nessuno. Nello specifico, avere degli oggetti che fossero gender appropriate significava rispecchiare il genere sessuale della persona, in assenza dei quali era previsto l’arresto.
La notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 era una notte come le altre… con la solita retata! La polizia irruppe nel locale, cercando pretesti per trattenere o arrestare qualcuno dei presenti, con perquisizioni corporali. Era quasi una routine, un gioco per la polizia, un’ umiliazione per i clienti. Fuori dallo Stonewall, oltre ai clienti allontanati dagli agenti, si era radunata una folla di circa 150 frequentatori del pub che assisteva inerme, ancora una volta, ai soprusi. Mentre veniva portata verso le camionette, una ragazza lesbica gridò con rabbia verso di loro: “Why don’t you guys do something?” (“Ragazzi, perché state lì senza far niente?“). Quella sera, in effetti, si spezzò qualcosa … la rabbia e l’esasperazione avevano raggiunto il limite; bastò quel grido d’aiuto per far scoppiare la rivolta. Inizialmente, la folla si limitò alle offese verbali ma, in brevissimo tempo, si passò alla guerrilla urbana. La folla tentò di squarciare le gomme dei mezzi della polizia o di ribaltarli, per impedire agli agenti di portare via gli arrestati. Fu in questo momento che una transgender di 17 anni gridò: “It’s a Revolution!”. Il suo nome è Sylvia Rivera e, secondo alcuni testimoni, fu la prima a lanciare una bottiglia (o una scarpa con tacco 12) verso lo schieramento della polizia. La situazione raggiunse il punto di non ritorno: alcuni giovani trovarono mattoni in un cantiere edile poco distante e li portarono fuori dal locale dove gli astanti, ora circa 600 persone, continuavano la sommossa. Gli agenti furono divisi in due gruppi e, mentre alcuni fuggirono in cerca di rinforzi, altri si barricarono all’interno del locale che fu messo sotto assedio dai manifestanti: alcune vetrine rotte, mobili dati alle fiamme e la porta d’ingresso distrutta con un parchimetro, utilizzato come un ariete medievale. In poco tempo, arrivarono i rinforzi della polizia in tenuta antisommossa, la stessa utilizzata in quegli anni per reprimere le contestazioni alla guerra in Vietnam ma in quel clima niente poteva più spaventare un popolo in cerca di legittimazione e giusti riconoscimenti: i manifestanti reagirono con scherno, creando una linea di balletto, cantando e ballando ed ostentando la loro omosessualità. Fra gli slogan gridati spontaneamente vi fu “Gay power!” (potere gay), ricalcato su “black power”, reso popolare dalle Pantere nere (il movimento attivista per i diritti della comunità nera).
Gli scontri proseguirono per quasi tutta la notte e, alla fine, il bilancio fu di 12 arresti, diversi poliziotti e manifestanti feriti. La rivolta suscitò grande scalpore: per la prima volta, gli omosessuali si sentivano in diritto di decidere della loro vita, per la prima volta venne distrutto il modello della “mammoletta” riferito all’uomo gay, per la prima volta fu chiaro a tutti che non si poteva più tornare indietro. Gli scontri non si fermarono e durarono, in modo non continuativo, per cinque giorni in cui alcune zone della città furono messe a ferro e fuoco: auto ribaltate, barricate improvvisate, cariche della polizia e volantinaggio di propaganda omofila. La protesta omosessuale non era solo una reazione al trattamento umiliante della polizia ma divenne il punto di partenza per richiedere diritti e legalità, riconoscimento e l’annullamento dell’emarginazione. Si chiedeva che i Gay bars fossero liberati dalle influenze mafiose, attuando il boicottaggio (lo stesso Stonewall Inn fu chiuso solo poche settimane più tardi), vennero create associazioni di mutuo soccorso per i minorenni allontanati dalle loro famiglie e costretti alla prostituzione per vivere, si crearono le basi per il movimento in difesa dei diritti gay. Con gli scontri ancora in corso, alcuni manifestanti, tra cui spiccano Sylvia Rivera e Marsha Johnson, una trans di colore, indissero assemblee per discutere dell’accaduto e una serie di eventi portarono alla nascita del GLF (Gay Liberation Front), un movimento d’ispirazione rivoluzionaria e marxista che chiedeva di unirsi alle lotte degli altri movimenti come Pantere Nere, estrema sinistra anticapitalista e pacifisti contro la guerra in Vietnam. In poco tempo, però, si crearono le prime fratture e le stesse Rivera e Johnson confluirono nel GAA (Gay Activist Alliance), un movimento meno oltranzista e più “istituzionale” che tendeva a concentrarsi solo sulle tematiche che oggi si definiscono LGBT (ma la sigla si espande: LGBTQ, LGBTQI..). .
Va sottolineato che i moti di Stonewall, da un punto di vista storico, furono solo un evento fortuito che permise a migliaia di persone di esprimere i loro bisogni, di rendere esplicita una richiesta comune di giustizia e diritti, già presenti e maturi nelle loro coscienze. A dimostrazione di ciò, va detto che i moti non furono i primi ma furono preceduti da molte manifestazioni, in diverse città americane, come quella della Compton’s Cafeteria di San Francisco nel 1966 e quella al gay bar The Patch di Los Angeles nel 1968 ma, a differenza di queste, diede la spinta decisiva. Per utilizzare le parole delle sociologhe Elizabeth Armstrong e Suzanna Crage:
«… Il fatto che questa congiunzione si sia realizzata a New York nel 1969, e non prima di allora o altrove, fu il risultato un complesso sviluppo politico che finì per convergere in questo momento e in questo luogo. (…) La storia di Stonewall è quindi un successo della liberazione gay, piuttosto che un resoconto sulle sue origini …» .
In onore dei moti di Stonewall, il mese di giugno è riconosciuto come quello dell’orgoglio omosessuale e il 28 giugno di ogni anno a New York si celebra la Pride parade, caratterizzata, come in tutto il resto del mondo, da colori, allegria ed esibizioni gioiose ed orgogliose della “diversità”. Quest’anno, in occasione del cinquantesimo anniversario, le comunità gay americane hanno organizzato manifestazioni per tutto l’anno che culmineranno con quella di oggi, 28 giugno 2019. A celebrare “dolcemente” questo anniversario, c’è anche un pizzico d’Italia: lo chef Angelo Bisconti, titolare della pasticceria Chérì di Campi Salentina, ha creato il Pasticciotto arcobaleno che unisce il dolce simbolo di Lecce all’arcobaleno del Gay Pride. Sarà venduto nel nuovo Stonewall Inn, che ha riaperto i battenti nel 2007 (nella stessa sede di Christopher Street), riconosciuto monumento nazionale nel 2016, durante la presidenza di Barak Obama.
Sylvia Rivera, una delle protagoniste indiscusse di quei giorni di lotta, fu invitata al Pride di Roma nel 2000. In quell’occasione, rilasciò un’intervista reperibile su YouTube, in cui con le sue parole ci fa capire quanti passi avanti siano stati fatti e quanto ancora ci sia da fare per garantire la libertà ed i diritti del popolo LGBT.
Sylvia è morta nel 2002 per un tumore al fegato ma il suo lascito si può riassumere con alcune parole pronunciate durante le manifestazioni che seguirono la notte di Stonewall:
… Dobbiamo farlo perché non possiamo più rimanere invisibili … non dovremmo vergognarci di chi siamo … dobbiamo mostrare al mondo che siamo numerosi …
Le Fonti
Ansa – 50 anni fa i moti di Stonewall
Ansa – Un pasticciotto arcobaleno allo Stonewall Inn
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