“Il maestro di go” di Yasunari Kawabata

alla regina degli scacchi preferisco Kawabata

“Il maestro di go” di Yasunari Kawabata

Yasunari Kawabata (1889-1972), premio Nobel nel 1968, è senza dubbio uno tra gli autori più celebri della letteratura giapponese; Il maestro di go rientra però tra i suoi lavori meno noti e, a torto, ritenuti minori. Pubblicata in volume per la prima volta nel 1951 con il titolo originale di Mejin, quest’opera, tra la cronaca e il romanzo, ha origine da sessantaquattro articoli scritti per il quotidiano Tokyo Nichinichi sull’ultima partita del grande maestro di un gioco chiamato go, Shūsai.

Ventunesimo e ultimo Hon’inbō per via dinastica, e dunque appartenente alle quattro più importanti famiglie di giocatori di go, il maestro è ricordato come uno dei giocatori più forti di sempre; ormai sessantasettenne e malato di cuore, nel 1938 Shūsai decise di chiudere la propria carriera con un’ultima, epica partita contro un più giovane ma degno rivale, Kitani Minoru, a cui Kawabata nel suo scritto attribuirà il nome fittizio di Ōtake.

I due si sfidano da giugno a dicembre, per un totale di quattordici incontri e mezzo (nel primo si giocherà solo una mossa per ciascuno), al ritmo di un giorno di gioco effettivo e quattro di riposo per un ammontare complessivo di ben quaranta ore – per venire incontro alla malattia già avanzata dell’illustre maestro.

In questi scontri Shūsai e Ōtake danno prova di un’elevatezza di spirito e di gioco che è la perfetta rappresentazione dell’anima più profonda del go e di ciò che simboleggia per la cultura giapponese.

Simile agli scacchi e al contempo profondamente diverso, questo gioco nasce in Cina ma trova il suo compimento estetico e tecnico in Giappone, dove diviene parte fondamentale della tradizione, alla stregua del teatro nō e della cerimonia del tè, e assume il valore di arte, di espressione filosofica dell’anima orientale.

La competizione tra il maestro Shūsai e Ōtake si tiene dunque su livelli molteplici e intrecciati: è una sfida tra vita e morte, tra vecchio e nuovo, e il grande scrittore, con una prosa limpida, malinconica e asciutta, imbastisce il suo reportage aprendo uno spiraglio luminoso su un universo e una concezione del go che vanno ben oltre l’orizzonte ludico.

Kawabata parte dall’ultima mossa e dalla morte del maestro e, anziché riportare in modo analitico le tecniche e le strategie dei protagonisti, si rivolge a un pubblico vasto, non necessariamente esperto: evoca l’atmosfera tutta particolare del momento, e dà viva espressione al tempo come sospeso della scena teatrale, in cui si manifestano la personalità imponente dei due avversari quasi attori e le reazioni del pubblico quasi coro che assiste intimorito e riverente.

Nel silenzioso isolamento di un albergo distante dalle distrazioni e dai ritmi frenetici della città, riecheggia il suono secco delle pedine di volta in volta posizionate sul goban (la scacchiera), a volte tagliente come quello delle spade in un combattimento, a volte soave come acqua di un ruscello o nube nel cielo – queste le liriche similitudini dell’autore –, suono che scandisce con solennità le interminabili sessioni di gioco.

L’opposizione tra i due contendenti si fa densa di significati simbolici: Shūsai è infatti un uomo di un altro tempo, che sposa il credo del go come creazione artistica tendente alla perfezione e all’assoluto. Si staglia davanti al goban, nonostante le afflizioni che ne tormentano il fisico affaticato, nella posa plastica di un fiero guerriero dall’atteggiamento zen che attende con stoicismo i tempi lunghissimi e sfiancanti dell’avversario.

Egli è forse destinato a restare l’ultimo dei maestri venerati dalla tradizione del go inteso come “via”.

Nella concentrazione della partita ogni sofferenza del maestro pare svanire e Kawabata, palesemente affascinato dal personaggio, lo descrive come un uomo che mantiene, anche nelle pause, tutta la tensione e la pregnanza del gioco dal busto in su, riflettendo il lavorio mentale incessante che lo attanaglia. Il suo amore per il gioco è così assoluto che l’autore non nasconde una sottile ma pervicace tendenza all’ossessività:

Non riusciva a giocare con leggerezza. Non conosceva la moderazione. Era mosso da un’ostinazione ossessiva. Non riposava mai, né di notte né di giorno. C’era qualcosa di strano in lui, quasi fosse divorato dal demone del gioco, e il suo non era un semplice passatempo. Perfino a mahjong e a biliardo, esattamente come a go, egli finiva per elevarsi al di sopra di tutto e di sé, e anche se i suoi avversari si irritavano, era sempre assolutamente sincero, la sua era una purezza perfetta. Diversamente dagli altri, che si limitavano a concentrarsi, egli sembrava piuttosto perdersi in uno spazio remoto.

Non è da meno il ben più giovane ma fortissimo Ōtake, dall’intelligenza brillante e dall’aspetto piacente e raffinato, che dal lato opposto del goban regge il confronto compiendo le sue mosse con fare nervoso; alterna lunghissimi periodi di riflessione a momenti di gioco rapido e frenetico e non perde mai di vista il suo obiettivo: vincere.

Come lo yin e lo yang le due personalità, i due stili di Ōtake e Shūsai si compenetrano nell’incontro, dando vita a uno spettacolo di enorme bellezza, che Kawabata celebra con genuina meraviglia:

Era come vedere un ingranaggio che si muoveva fluido, un teorema di rara acutezza, con in più l’alto senso estetico di un ordine perfetto. Si trattava di una battaglia, ma essa assumeva una forma nitida, pulita. E i giocatori con lo sguardo inchiodato al tavolo da gioco la rendevano tanto più bella.

Tuttavia, dopo giorni di estrema tensione e di sofferenze fisiche e psicologiche da entrambe le parti, la volontà indomita del maestro si infrange tragicamente e silenziosamente alla mossa 121. Pur prendendo da subito consapevolezza delle sorti del gioco, con le pietre che quasi scivolano dalle mani tremanti, Shūsai mostra un atteggiamento compassato e accetta di spezzarsi di fronte a qualcosa che non è più in grado di sostenere. E la bellezza di tutta la partita, in fondo, deriva proprio da questa conclusione imperfetta, così umana e così divina: non a caso la sconfitta, nel go, è in sé un atto convenzionale nei confronti della controparte, che non risulta mai davvero perdente, in quanto preserva comunque un proprio territorio conquistato.

Come lo era stata la partita, così la sconfitta è ben più che la semplice, triste chiusura della carriera di un grande giocatore: è la fine di un’esistenza, ma anche di un’epoca, quella di un gioco aristocratico, dal valore sacro e filosofico di via mistica, a vantaggio della modernità, della concezione del go come uno sport tra gli altri, incastrato in regole cavillose e sempre più pericolosamente vicino all’interpretazione occidentale, che Kawabata dolorosamente depreca nel ricordo di una breve partita con un americano conosciuto durante un viaggio che giocava per puro diletto, senza attenzione.

Era come se la vita del maestro si spegnesse nello stesso momento in cui finiva, con quell’ultima partita a go, l’arte del maestro Shūsai.

Nell’edizione italiana del romanzo, uscita nel 2012 per Einaudi nella traduzione di Cristiana Ceci, è particolarmente interessante il breve scritto di Raffaele Rinaldi, che si sofferma sia sugli aspetti tecnici basilari, sia su quelli più filosofici del go. Affascinante, tra le altre riflessioni, il fatto che qui lo spazio, a differenza degli scacchi, nasca vuoto: il goban è inizialmente privo di pezzi, e l’entropia ha modo di espandersi con l’avanzare del gioco e il posizionamento delle pedine, allo scopo di creare un’area vitale più ampia possibile. Solo il campione riesce a mantenere una visione chiara dello spazio e sa gestire con metodo l’alternanza di pieno e vuoto, di libertà e vincolo che è il perno di tutto il gioco. Proprio per questo l’atteggiamento ideale per giocare consiste proprio, come viene ribadito più volte da Kawabata stesso, nel creare uno spazio mentale, nel dimenticarsi di sé mentre l’altro medita.

Non importa essere esperti di go, non importa nemmeno conoscere le regole del gioco: Il maestro di go è un’opera che trascende ogni valore materiale e ci disvela sulla sua scacchiera nuove e sempiterne sfaccettature di un mondo, una cultura, un pensiero dal fascino inesauribile.