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pubblicato 5 anni fa in Interviste

Intervista a Giulia Martini

Intervista a Giulia Martini

Il Culturificio ha avuto il piacere di conversare con la poetessa Giulia Martini, autrice di Coppie Minime (Interno Poesia, 2018) e ora curatrice di un volume di poesia italiana contemporanea dedicato alle generazioni nate tra gli anni Ottanta e Novanta del ’900, sempre edito da Interno Poesia.

La poetessa Patrizia Valduga in un’intervista a Castelfiorentino, nel 2012, dice “si è poeti in modi diversi, io credo che ognuno lo sia a suo modo”: qual è il tuo modo di essere poeta? La scrittura è un esercizio volontario o nasce altrove?

La scrittura è un esercizio volontario e nasce altrove; per riprendere la metafora ungarettiana del poeta come palombaro, questo altrove ha necessariamente a che fare con un «inesauribile segreto», di cui la misura volontaria si costituisce come un furto. Il mio modo di afferire al gesto poetico passa attraverso questo furto.

Tra le tue poesie si possono reperire numerosi riferimenti geografici; qual è il tuo rapporto con la tua città, in che modo influenza la tua lingua?

C’è una città da cui mi sono allontanata appena ho potuto («Quarrata in provincia di Pistoia») e una città d’elezione, Firenze, che comunque si porta dietro tutti i problemi dello sradicamento e del travaso: «Appare la facciata / del Duomo in piazza Duomo / come un grande problema». Poi Firenze è divisa in quartieri, che nel libro sono collegati ai diversi modi di manifestarsi del tu; per esempio:

Tra un po’ ricomincerà, pensavo intanto,

a lamentarsi, quanto è lunga farsela

a piedi da casa mia, in via G. Monaco

fino al quartiere di Sant’Ambrogio.

O ancora:

Chi ti sorprende, chi si prende cura

di te, fra le Cure e Campo di Marte?

In generale quindi, direi che la città rientra nella mia scrittura come una complessità – una complessità stratificata, che riguarda in prima battuta il fatto di andare o di rimanere, poi le modalità con cui uno va e l’altro rimane.

C’è una tua poesia che fa “Amore mio, ma che è successo?/Invece di averti negli occhi,/ti vigilo l’ultimo accesso”. Sembra fare direttamente appello a Whatsapp e ai social media; volevo chiederti: qual è il tuo rapporto con queste realtà e qual è, secondo te, lo spazio che la poesia riesce qui a ritagliarsi?

Non molto diverso da quello della città, in effetti: anche i social media sono modi di andarsene e di rimanere (e di rimanere andandosene: «So sempre dove sei / quando sei online»).

Leggendo il tuo libro è facile intuire il tuo universo letterario, ma chi ritieni essere i tuoi riferimenti poetici?

C’è un dedicatario di Coppie minime (e la dedica è nell’ultima poesia del libro): Stefano Protonotaro. Quindi direi la scuola siciliana, la lirica occitana e in generale la poesia delle origini. Poi naturalmente il discorso è più ampio.

Il tuo mentore invece?

Solo dopo aver pubblicato il libro (e proprio grazie al libro) ho conosciuto Alba Donati, che ha il ruolo fondamentale di mettere in crisi tutto il mio sistema di rime e di partenze, di farmi fare i conti con quello che mi manca: una dimensione etica e una città pacificata.

Per altro, con Alba Donati terrai a breve dei corsi di composizione poetica nella neonata scuola Fenysia, vero?

Non proprio a Fenysia ma in Garfagnana, il suo «paesaggio dell’infanzia», il 29 e il 30 giugno prossimi: lezioni all’aperto su Pascoli, Betocchi, Pasolini, Lamarque, Cavalli, Szymborska… Parleremo anche dell’impalcatura metrica e del rapporto tra significante e significato, nella convinzione che un contesto di trekking e merende non esoneri da un discorso tecnico-normativo più specifico. Dominare la complessità: ecco un altro modo per fare questo.

Recentemente Valerio Cuccaroni sulla rivista «Argo» ha coniato il termine di “spettacolarismo” per parlare delle nuove leve della poesia contemporanea, cosa pensi di questa definizione e come ti collochi nel panorama attuale?

Anche gli antichi aedi avevano a che fare con la performance, non mi sembra una novità. Più difficile mi sembra rispondere alla seconda domanda: già è un azzardo collocare gli altri, figuriamoci sé…

Hai pubblicato la tua raccolta con Interno Poesia, una realtà emergente, quale pensi sia la vitalità della poesia ora nell’editoria italiana?

So che va di moda parlare di crisi – ma la vitalità della poesia, e quindi dell’editoria che si fa carico dell’arduo compito di trasmetterla, è inesauribile. Così come è inesauribile il dibattito sui modi che si scelgono per trasmetterla. Interno Poesia, per esempio, si contraddistingue per la scelta coraggiosa di un’indagine continuativa e dialogante, mossa non dalla presunzione di inchiodare i “migliori” ma da una sincera volontà di capire.

Sempre per Interno Poesia hai recentemente curato l’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ‘90”, parlaci un po’ di questo progetto, di cosa accomuna gli scrittori selezionati.

Se dovessi rispondere con una parola sola, userei senz’altro propensione – cioè la comune volontà di sfida rispetto a un’assenza, una resistenza che non è più (solo) contemplativa. Nella prefazione infatti, noto come tutti i testi facciano riferimento a dei mezzi di trasporto, da una «ruspa» a un’«arca»: mi è sembrato che quest’insistenza su qualcosa che ha a che fare con uno spostamento (soprattutto nei termini di un ritorno) denotasse una sorta di resistenza partecipata rispetto alle categorie della disgregazione e della perdita.

In un’altra tua poesia dici “Tutti quelli che silenziosi siedono/ […] mi chiedono/ quando pubblicherò il prossimo libro”, possiamo chiederti noi quali sono i prossimi progetti in cantiere?

Sto lavorando al secondo volume di Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90: anche questo percorso antologico infatti, secondo la linea editoriale di Interno Poesia, si pone nei termini di indagine e di ricerca.

Quale consiglio daresti a un poeta emergente?

Forse di aspettare. Per scrivere (e soprattutto ordinare) Coppie minime ci ho messo quattro anni. Prima avevo avuto fretta e ho sbagliato, facendo uscire testi che adesso non mostrerei mai. Un’altra cosa, in linea col senso profondo dell’antologia che ho curato, è quella di leggere (leggersi).

Il tuo verso preferito?

Anche questa è una domanda difficile. Uno a cui penso spesso è «disperate cetonie capovolte» di Gozzano.


Intervista a cura di Edoardo Angrilli

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