Kafka all’Askanisher Hof
L’Askanisher Hof è un albergo berlinese nel quale Kafka soggiornò ai tempi del fidanzamento con Felice Bauer, tra il 1913 e il 1914. In questo contesto signorile si svolse, nel luglio del 1914, quel “processo” allestito da un giuria di terzi, amici, fidanzata e familiari, avente per oggetto il controverso fidanzamento di Franz con Felice, destinato al fallimento. Processo che, verosimilmente, sarà motore creativo del romanzo omonimo. Non ci è permesso, in questa sede, sviscerare tutte le implicazioni, misteriose e affascinanti, di questa relazione sotterranea tra il fallimento del fidanzamento di Kafka e la scrittura del romanzo, e tutte le strane capitolazioni dell’estate del 1914. In quella selva impervia di testimonianza che sono i Diari ci è dato tuttavia di isolare un brano di stellare dichiaratività, dal quale emerge, a giudizio di chi scrive più chiaramente che in qualsiasi altro testo, letterario o diaristico, coevo o diacronico, la matrice essenzialmente mimetica del desiderio di Kafka – indirizzo che costituisce, si sa, il fondamento dell’interpretazione che si propone in questa sede.
Proponiamo il brano in questione, prima di qualsiasi introduzione o analisi – così che il lettore possa farsi in autonomia un’idea del valore rivelativo di questo testo.
Due volte alla scuola di nuoto sulla riva di Strahlau. Molti ebrei. Volti Azzurrigni, corpi robusti, corse pazze. La sera nel giardino dell’Askanischer Hof, mangiato riso alla Trautmannsdorf e una pesca. Un bevitore mi osserva mente cerco di tagliare col coltello la piccola pesca acerba ma non ci riesco. Per vergogna, sotto gli occhi del vecchio, pianto lì la pesca e sfoglio dieci volte i “Fliegende Blatter”. Sto aspettando che quello si decida a guardare dall’altra parte. Infine mi faccio forza e a suo dispetto mordo la pesca senza succo e costosa. Nella veranda sta accanto a me un signore alto che non si cura di niente tranne dell’arrosto scelto attentamente e del vino nel secchiello col ghiaccio. Infine accende un sigaro e io lo osservo al disopra dei “Fliegende Blatter”. (1)
Brano minuto, icastico, paratattico e asciuttissimo, ma quanto rivelativo, quanto ricco di storia.
Kafka è all’Askanisher Hof, l’hotel dove pochi giorni prima ha subito un “processo” che metteva in questione il suo fidanzamento con Felice Bauer, la via di fuga che, nei mesi immediatamente precedenti, aveva escogitato per scampare la trappola familiare, la mediazione impossibile di cui si è detto altrove. Kafka descrive il suo pasto, frugale ma non trascurato, come sempre. Riso e un frutto. Divina autonomia del mangiatore solitario, godimento puro della circolazione identitaria tra egoità e alimento! Ma, interviene un osservatore. Egli guarda con interesse Kafka che cerca di tagliare una pesca ma non ci riesce. “Per vergogna”, Kafka abbandona l’intrapresa e sfoglia “dieci volte”, con la muta stolidità dell’oppresso, una rivista a caso.
Perché ci si dovrebbe vergognare di non saper tagliare una pesca, in assoluto? Forse non ce ne sarebbe ragione, se non ci si trovasse a cena, una sera, dopo una giornata in cui il confronto con una pletora di simili-diversi – gli ebrei della scuola di nuoto, ebrei come Kafka, ma con “corpi robusti” come quello di papà (2) – ha lasciato quantomeno un’impressione testimoniale su di noi, che ci forza alla scrittura (“volti azzurrigni, corpi robusti, corse pazze”); e seduti accanto a un “signore alto” che, a differenza nostra, bada unicamente al suo pranzo e “non si cura di niente”, in perfettissima, divina autonomia – come se a lui non fosse capitato, e mai, non solo quel giorno, di confrontarsi con l’altro, con il simile-diverso, con il modello-ostacolo. Forse non ci sarebbe bisogno di vergognarsi, si intende, se non si fosse sottoposti alla mediazione convergente di un modello ottimale di quel che si vuole intraprendere – di quel che si è in quel momento, ospiti di un albergo signorile –, ovvero il mangiatore soddisfatto dell’arrosto, che divinamente consuma il suo pasto nel bozzolo cristallino dell’identità gaudente, autistica e regale, e lo sguardo del vecchio bevitore, che con la sua costanza, non domata da dieci riletture dei Fliegende Blatter, insiste a osservare, a giudicare la performatività del povero Kafka con la pesca in relazione al contesto, e non può non cogliere la sua inadeguatezza all’ambiente, alla situazione, al mondo. Il paragone con il signore alto, che mangia l’arrosto come un dio, è inevitabile! Lui sì, che sa vivere – così penserà il bevitore, paragonandomi a lui! “Io lo osservo al disopra dei Fliegende Blatter”.
Il brano è scarsissimo, moltissima vita è omessa, e l’analisi è conseguentemente sbrigativa. Ma se mi si chiedesse cosa io abbia mai letto di più spiccatamente girardiano in Kafka, non esiterei a indicare questo brano. La schematicità della situazione, l’attenzione ai protagonisti, la selezione dei dettagli, la triangolazione degli sguardi: tutto grida che l’intenzione proattiva, ciò che mosse la penna di Kafka a scrivere questa testimonianza, è la lucida intuizione che lì, in quell’evento, si manifestava qualcosa di cruciale, di propriamente cooriginario alla vocazione letteraria: il desiderio di Kafka nella sua dipendenza dagli altri.
Si è parlato del desiderio mimetico di Kafka, ma questo brano apre alla considerazione di un’altra caratteristica del suo desiderio, convergente e divergente a quello mimetico, che cade sotto la dicitura di amae, secondo la definizione che ne diede Takeo Doi (3). Sorprendentemente, questa modalità del desiderio, che potremmo semplificare nella nozione di “dipendenza dagli altri”, dal loro sguardo, dal loro desiderio, affratella la nostra analisi di Kafka a quelle che si faranno dell’animazione giapponese (4). Ne diremo prossimamente. Speriamo intanto che questo breve estratto abbia prodotto sul lettore la stessa impressione rivelativa che ha avuto su chi scrive.
(1) F. Kafka, Confessioni e Diari, Meridiani Mondadori, Milano 1972, p. 475.
(2) Cfr. F. Kafka, Lettera al padre, in Confessioni e Diari, op. cit., p. 644, dove Kafka paragona il proprio corpo a quello del padre ai bagni pubblici: “Io magro, sottile, esile, Tu vigoroso, grande, grosso”.
(3) T. Doi, Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991.
(4) Che Kafka sia vittima della logica di amae è cosa che altri hanno già discusso, a quanto so (Gerhard Schepers, Images of amae in Kafka, “Humanities, Christianity and Culture”, ICU Publications IV-B, 15 luglio 1980: non sono riuscito a recuperare l’articolo, purtroppo). Interessante in questo senso la lettura di Bataille, che parla di un Kafka infantile (La letteratura e il male, SE, Milano 1987).
Articolo a cura di Mattia Carbone
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Delle cose nascoste , un blog che dalle idee di René Girard cerca di dare una nuova chiave di lettura sia della società che dei suoi prodotti culturali. Abbiamo voluto pubblicare questa rubrica perché crediamo che il pensiero di questo studioso, un intellettuale sorprendente che ha dato un contributo originale nei campi di studio più disparati (si spazia dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storia delle religioni) sia di fondamentale importanza per coltivare una visione critica sul mondo, soprattutto sulla nostra contemporaneità.