La felicità dell’amore o l’ideale infranto
"Il conte di Cagliostro" di Aleksej Tolstoj
Nel distretto di Smolensk, in mezzo a colline ricoperte da campi di grano e boschetti di betulle, sul greto alto di un fiume, sorgeva la residenza signorile di Biancafonte, antico feudo dei principi Tulupov.
Si apre così il breve racconto dalla comicità a tratti terrificante di Aleksej Tolstoj. Dopo un’intricata vicenda redazionale e numerosi rimaneggiamenti l’opera venne finalmente pubblicata nel 1928 nella versione definitiva dal titolo Il conte di Cagliostro (Graf Kaliostro, tradotto per Sellerio nel 1987 da Renzo Oliva), dall’omonimo personaggio storico, l’avventuriero italiano Giuseppe Balsamo giunto nel 1779 alla corte di Caterina II. Costretto a trovare riparo proprio presso la residenza signorile di Biancafonte durante una tempesta, il misterioso alchimista si rivela, fin da subito, estremamente sicuro di sé e del potere mistico che riesce a esercitare sugli altri, fatta eccezione per la giovane moglie Maria. Accompagnato da un enigmatico servitore incredibilmente nato all’epoca del faraone Amenhosiris, il conte Foenix è un uomo corpulento con un’enorme parrucca démodée presentato dall’autore come un gradasso dal viso paonazzo e il naso ad uncino.
La casa in legno degli avi, ubicata in una minuscola conca, era stata sprangata e abbandonata. La casa nuova, con colonne in stile greco, era rivolta verso il fiume e i campi retrostanti. La facciata posteriore, con le due dépendances, si spingeva sin entro il parco, ov’erano dei laghetti con isolotti e fontane.
Un velo di sinistra e inquietante fantasia percorre e ricopre i tetri vialetti del parco fino a raggiungere la casa abitata da Aleksej Alekseevič Fedjašev, giovane sognatore, amante della solitudine e affetto, a suo avviso, da una malattia – che lui stesso definisce “ipocondria” – e da sua zia, Fedos’ja Ivanovna, instancabilmente dedita al nipote e particolarmente attenta all’inesistente vita sentimentale di quest’ultimo. Non stupisce che il titolo con il quale l’opera vide originariamente la luce a Berlino nel 1922 fosse Lunnaja Syrost’, ovvero L’umidità lunare, che pareva fornire un esplicito suggerimento al lettore. Proprio come l’ambiente appena descritto, anche l’opera di A. Tolstoj è una sorta di edificio dalle mura pretenziosamente storiche in cui via via si rivelano piccole crepature, spaccature causate da un fantastico raccapricciante che lacera con prepotenza un apparato di realtà fintamente autentica.
Un libro in cui la realizzazione del sogno e la concretizzazione dell’ideale vengono rincorse fino all’estremo, oltre i confini del possibile, al di là dei limiti del concepibile. Al centro del racconto vi è un vecchio ritratto impolverato ritrovato da Alexis – come soleva chiamarlo Fedos’ja Ivanovna – nel terrazzino dell’antico appartamento abbandonato. Avendo intuito si trattasse del ritratto della compianta cugina, la principessa Praskov’ja Pavlovna Tulupov, Aleksej Alekseevič ordinò che venisse appeso nella biblioteca.
La tela era velata dalla polvere, ma i colori erano vividi. Aleksej Alekseevič esaminò il volto – di una bellezza mirabile, i capelli incipriati, pettinati lisci, le alte arcate sopraccigliari, la bocca piccola e appassionata con gli angoli lievemente rivolti all’insù, il vestito chiaro, che lasciava scoperto fino a metà un seno verginale. Una mano, che posava tranquillamente al di sotto del seno, teneva tra l’indice e il pollice una rosa.
Non poteva immaginare che proprio quel semplice gesto avrebbe rappresentato l’inizio di un sortilegio dal quale con difficoltà si sarebbe liberato. Un improvviso turbamento, un pensiero fisso e ossessivo si impadronisce, infatti, dell’animo di Alexis:
Dentro di sé cominciava a chiamare Praskov’ja Pavlovna l’amica delle ore solitarie, l’ispiratrice dei suoi sogni.
La materializzazione delle idee sensibili, – proferì Cagliostro, sbadigliando e riparandosi la bocca con la mano, – è uno dei compiti più ardui e rischiosi della nostra scienza… Nel corso di tale operazione spesso si rivelano i fatali difetti dell’idea che viene materializzata, non di rado la sua completa inettitudine alla vita…
Quando ormai quell’amore tanto agognato, quell’ideale che Alexis avrebbe voluto si materializzasse anche a costo della sua stessa vita stava per concretizzarsi grazie all’intervento di Cagliostro, il fuoco che credeva ardere nel suo petto andava man mano consumandosi, lasciando il posto a un amore sempre più reale, tangibile, seppur non raggiungibile. Completamente pervaso dal desiderio di una felicità che si affacciava all’orizzonte e, al contempo, intimamente turbato dall’impossibilità di vivere quella vera passione con Maria, per la prima volta Aleksej Alekseevič viene sommerso dall’autenticità dei sentimenti. Scontratosi con la vita reale, deve fare i conti con quello che da sogno, prendendo vita, si era tramutato in mostruoso e ripugnante incubo:
Aleksej Alekseevič si rendeva conto che l’incanto dell’odierno mattino aveva rovinato la sua vita. Non avrebbe potuto più tornare ai sogni confortevoli e disperati di un amore ideale.
Sia il sogno, sia la veglia gli erano stati distrutti: quali incanti avrebbe potuto attendersi ancora dalla vita?
Eppure, quasi a voler condannare lo stereotipo dell’uomo arrogante e troppo pieno di sé incarnato dal conte Foenix, Tolstoj sembra concedere una rosea conclusione ai tormenti amorosi di Aleksej Alekseevič. Un lieto fine, tuttavia, dai toni chiaramente incerti e tentennanti che mantiene uno spiraglio aperto a quell’alone di incantesimo e mistero, filo conduttore del racconto. Al termine di quella che parrebbe a tutti gli effetti essere una fiaba dall’epilogo felice, l’autore strizza l’occhiolino al lettore, insinua in lui il dubbio, lasciandolo appeso all’interrogativo principe di ogni storia d’amore…
In quel momento tutto ciò che li separava, tutte invenzioni e arzigogoli, si dileguò, come fumo sotto il vento. Rimasero solo labbra premute contro labbra, occhi fissi negli occhi: la felicità d’un amore in carne ed ossa, forse effimera, forse amara – chi lo sa?…