La schiavitù e il caso Stati Uniti contro La Amistad
La fine della schiavitù negli Stati Uniti viene associata alla figura del Presidente Abraham Lincoln e alla Guerra Civile degli anni fra il 1861 e il 1865. In realtà, però, già il 9 marzo 1841 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva decretato una decisa condanna dello schiavismo. Era stato un evento senza precedenti, un processo che coinvolse alcuni dei personaggi politici più illustri del tempo e che minò i rapporti diplomatici tra due grandi protagonisti della storia “atlantica”. Citando lo storico Samuel Eliot Morison, «il più importante caso giudiziario che coinvolse la schiavitù».
Per comprendere meglio la natura del “Caso Amistad”, bisogna tornare agli albori della colonizzazione europea del Nuovo Mondo, scoperto da Cristoforo Colombo, al servizio dei sovrani iberici.
Gli Spagnoli che iniziarono la colonizzazione, dopo la scoperta, si resero conto che per dare vita a una nuova società avevano bisogno di manodopera (ovvero di schiavi), per coltivare e costruire città. In un primo momento i Conquistadores spagnoli provarono a soggiogare le popolazioni locali, ma presto si presentarono due enormi impedimenti: anzitutto, gli Indios vennero decimati da malattie importate involontariamente dai colonizzatori (un vero e proprio shock microbiologico); secondo poi, almeno in parte, gli indigeni erano protetti dalle stesse leggi spagnole. Per comprendere il secondo punto occorre fare un passo indietro fino al 1494.
Immediatamente prima del secondo dei quattro viaggi di Colombo verso le Indie, nello scacchiere atlantico, di cui Spagna e Portogallo si contendevano il predominio, si creò il problema del “diritto alla colonizzazione”. Onde evitare dispute e contese, Papa Alessandro VI Borgia decise di fare da mediatore, come vero e proprio Primus inter pares, in un accordo fra Spagna e Portogallo che, tracciando una raya (linea) immaginaria sulle carte geografiche, avrebbe reso il globo terrestre un duopolio fra le due potenze cattoliche, (una situazione simile a quella del Muro di Berlino, per fare un esempio più recente) a patto che i popoli colonizzati diventassero sudditi dei Re iberici e, di conseguenza, nuovi cristiani. Gli Indios, “sudditi della corona e cristiani”, non potevano perciò essere schiavi; inoltre, dal 1512, le Leggi di Burgos rappresentavano una legislazione che tutelava dalla schiavitù i nativi americani, poi arricchita con le Leggi nuove del 1542. Per queste ragioni, bisognava trovare un nuovo popolo da sottomettere.
La risposta, seppur disumana, venne fornita dall’atteggiamento dei “rivali” portoghesi per laa colonizzazione del Brasile, scoperto da Pedro Álvares Cabral nel 1500: i portoghesi, per sopperire alla mancanza di manodopera locale, iniziarono a importare forzatamente schiavi africani, che a differenza degli Indios non avevano diritti riconosciuti; in Africa, infatti, anche durante le guerre fra tribù prima della colonizzazione, era consuetudine utilizzare i prigionieri di guerra come schiavi e merce di scambio. Il mercato degli schiavi divenne gradualmente una risorsa necessaria al Nuovo Mondo e dunque si sviluppò la cosiddetta Tratta atlantica, una rotta commerciale in cui l’importazione di schiavi africani aveva il ruolo predominante.
Questa pratica, tanto disumana quanto redditizia, rimase in vigore per quasi tre secoli fino a quando, all’inizio del XIX secolo, i movimenti a favore dell’abolizione iniziarono a ottenere consensi sempre maggiori, con la messa al bando della Tratta in molti paesi europei e negli Stati Uniti, a partire dal 1808. L’economia delle colonie, però, non poteva sopravvivere senza manodopera schiavizzata: l’abolizione della Tratta non si tradusse immediatamente in un’abolizione totale della schiavitù, ma fece proliferare un mercato clandestino di schiavi dall’Africa su rotte secondarie e meno battute.
Ed è in questo contesto che si svolge la storia de La Amistad.
Sierra Leone, giugno 1839: la nave mercantile Teçora, della flotta portoghese, riempì le sue stive di schiavi locali per trasferirli a Cuba (all’epoca sotto il dominio spagnolo) e farli lavorare nelle piantagioni di zucchero. Giunti al porto de L’Havana, il 26 giugno, 53 di loro (49 maschi adulti, acquistati dal latifondista José Ruiz, 3 bambini e una bambina, acquistati invece da Pedro Montes), appartenenti alla tribù dei Mende, furono imbarcati su La Amistad, una nave mercantile spagnola capitanata da Ramón Ferrer (spagnolo di Ibiza che aveva trovato fortuna nel Nuovo Mondo) per essere condotti nel porto di Guanaja. Durante la tratta, le condizioni di vita, già complesse a bordo delle navi negriere, erano precarie, i prigionieri erano incatenati in spazi molto ristretti, in stato di malnutrizione e di maltrattamento – la nave peraltro era nata per il trasporto di merci, non di persone. Durante questa dura traversata, nella notte fra il 30 giugno e il primo luglio, alcuni schiavi riuscirono a liberarsi dalle catene: guidati dal loro leader Sengbe Pieh, più tardi noto alle cronache col nome di Joseph Cinque, si ribellarono ai loro carnefici. Dapprima raggiunsero le cucine dove uccisero Celestino, il cuoco mulatto di origine portoricana e subito dopo uccisero Ramón Ferrer. Prima di morire il Capitano riuscì a dare l’allarme e, sul ponte del mercantile, iniziò la carneficina: gli schiavi, più numerosi, riuscirono a prevalere, ma risparmiarono la vita a due marinai: il navigatore Montes e Antonio, il servo del capitano, che fece da interprete. Gli schiavi ordinarono agli spagnoli di cambiare rotta per dirigersi verso l’Africa e la Sierra Leone; gli spagnoli, però, fingendo di obbedire, li ingannarono, navigando di giorno verso Est, di notte verso Nord-Ovest. Gli schiavi ammutinati, inoltre, non potevano sapere che altri due membri dell’equipaggio erano riusciti a fuggire su una lancia e che, raggiunta la costa, avrebbero dato l’allarme al comando de L’Havana.
Il 26 agosto, dopo una caccia in mare aperto di quasi due mesi, con il coinvolgimento degli Stati Uniti, la nave venne abbordata dal guardacoste USRC Washington del servizio navale della finanza statunitense, comandato dal tenente di vascello Thomas Gadney, e poi presa in custodia poco al largo di Long Island.
Nel 1839 ogni stato aveva una sua posizione specifica sullo schiavismo e sui diritti degli africani a bordo delle navi negriere. Qualora fosse sbarcato a New York, dunque, il tenente Thomas Gadney non avrebbe potuto reclamare la relativa ricompensa dovuta al salvataggio della nave che, secondo le prassi del diritto marittimo, si calcolava in base alla merce sottratta agli ammutinati. A bordo de La Amistad gli schiavi ribelli erano universalmente riconosciuti come ammutinati ma solo negli stati in cui la schiavitù era ancora tecnicamente legale potevano essere considerati merce. Il tenente decise quindi di condurli in porto a New London nel Connecticut, ancora dedito allo schiavismo. Lì era attivo il movimento in favore dell’abolizione della schiavitù, ma gli interessi economici internazionali, particolarmente cari al Presidente Martin Van Buren, vedevano gli Stati Uniti vicini alla Spagna, a sua volta legata al commercio atlantico di schiavi nell’area di Cuba.
Il 7 gennaio 1840 gli schiavi furono processati perciò per ammutinamento e insubordinazione. Il giudice, analizzando le carte, non considerò il motivo per il quale i Mende si trovassero sulla nave (ovvero come schiavi e, con la Tratta illegale, avrebbero avuto diritto a ribellarsi), ma solamente che avevano agito con l’uso della forza, da uomini liberi. La sentenza era decisamente gradita a Isabella II, sovrana di Spagna, che chiedeva la restituzione degli schiavi come merce, in base al Trattato di Pinckney del 1795.
Gran parte dell’opinione pubblica non accettò il verdetto e si creò un movimento di dissenso in favore del Comitato de La Amistad, guidato dall’avvocato Roger Baldwin che, già durante il processo, aveva cercato di dimostrare la condizione di schiavitù imposta ai Mende. Per poter organizzare la difesa e comunicare con gli accusati fu determinante un altro membro del comitato, il professor Josiah Willard Gibbs; questi imparò a contare fino a dieci nella lingua mende e si recò al porto di New York, contando ad alta voce. Riuscì così a destare l’attenzione di James Covey, un marinaio di origini africane in servizio per la Marina britannica che, colpito dalla storia degli ammutinati, decise di rendersi utile alla causa come interprete e mediatore. Grazie a una comunicazione più efficace con gli accusati la difesa, in secondo grado, riuscì a dimostrare il loro status di schiavi, la detenzione illegale, le terribili condizioni in cui erano stivati, e che l’ammutinamento era stato compiuto per rivendicare il loro diritto alla libertà; l’azione dunque non poteva essere considerata un reato. La sentenza fu incredibile, storica.
La Corte ordinò l’immediato rilascio degli africani de La Amistad con l’obbligo, per il governo statunitense, di risarcire il costo del viaggio di ritorno in Africa.
Sotto la pressione dei suoi alleati commerciali, il Presidente Martin Van Buren, prossimo alla fine del suo mandato, chiese l’intervento della Corte Suprema. Durante la discussione in Campidoglio, il Comitato Amistad si rivolse allora all’ex Presidente e Segretario di Stato John Quincy Adams e gli chiese di sostenere la difesa davanti alla Corte Suprema. Adams era uno dei principali oppositori della schiavitù, aveva una vasta esperienza all’interno del governo, aveva discusso davanti alla Corte Suprema, negoziato trattati internazionali: però aveva 72 anni, era quasi cieco, e non aveva più sostenuto un caso come avvocato da oltre 30 anni. Dopo qualche esitazione alla fine accettò e, in quello che forse sarebbe stato il suo ultimo servizio al paese, si espresse in difesa degli africani con un lungo discorso sul diritto alla libertà e alla giustizia, consegnando alla storia l’arringa difensiva nel primo caso di battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti.
Il 9 marzo 1841, appena iniziata la presidenza del neoeletto William Henry Harrison, la Corte Suprema confermò la sentenza del tribunale di grado inferiore e autorizzò il rilascio degli africani, ma annullò l’ordine del tribunale che prevedeva il loro ritorno in Africa a spese del governo. La Corte Suprema deliberò per 7-1 a favore dei prigionieri e stabilì che gli africani a bordo de La Amistad erano individui liberi. Rapiti e trasportati illegalmente, non erano mai stati schiavi. Il giudice supremo Joseph Story affermò che:
è diritto fondamentale di tutti gli esseri umani in casi estremi, resistere all’oppressione e applicare la forza contro l’ingiustizia estrema.
Il Comitato de La Amistad riuscì ad organizzare una grande raccolta fondi con cui permise agli uomini liberi di avere degli alloggi temporanei a Farmington e di noleggiarela nave Gentleman, che partì per la Sierra Leone nel novembre del 1841, con a bordo Sengbe Pieh, trentaquattro prigionieri sopravvissuti (alcuni erano morti sulla nave, altri erano morti durante il processo) e alcuni missionari cristiani. Poco prima di partire, i Mende donarono a John Quincy Adams una Bibbia con questa dedica:
Stiamo per tornare a casa in Africa. Ti ringraziamo per tutta la tua gentilezza nei nostri confronti. Non dimenticheremo mai la tua difesa dei nostri diritti dinanzi alla Grande Corte di Washington. Sentiamo di dovere a te, in larga misura, la nostra liberazione dagli spagnoli, dalla schiavitù o dalla morte. Pregheremo per te, signor Adams, finché vivremo. Che Dio ti benedica e ti ricompensi!
Giunti in patria, nel gennaio del 1842, trovarono le loro dimore distrutte e le loro famiglie scomparse, probabilmente in seguito ad altre razzie di commercianti di schiavi.
Pochi mesi dopo, la storica sentenza diede i suoi frutti: la decisione a favore degli africani prigionieri diede forza al movimento abolizionista, che passò dall’essere un gruppo frammentato a un movimento legittimo, e il caso Amistad aiutò a moltiplicare il suo messaggio sull’ingiustizia della schiavitù. Spagna e Portogallo, da sempre sostenitori del commercio di schiavi, di fronte a questo precedente, furono costretti a rendere illegale la Tratta.
Fonti
Libri:
Marcus Rediker, La ribellione dell’Amistad. Un’odissea atlantica di schiavitù e libertà, Feltrinelli, Milano 2013.
David Pesci, Amistad. La storia vera della rivolta che minò lo schiavismo alle radici, Sonzogno editore, Venezia, 1998.
Daniele Pompejano, Storia dell’America Latina, Mondadori, Milano 2012.
Giorgio Zerbinati, Amistad, catene spezzate, su Focus Storia, pp 76-82, maggio 2015.
Film:
Amistad,di Steven Spielberg, distribuito da DreamWorks Pictures e HBO, Stati Uniti 1997.
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