Lelio Camassa
pubblicato 1 anno fa in Letteratura

Luigi Tansillo e “Il vendemmiatore”

freschi orti rinascimentali

Luigi Tansillo e “Il vendemmiatore”

Relegato dai testi universitari in uno smilzo trafiletto, in un cantuccio di erudizione a cui accedevano quasi esclusivamente gli specialisti, giace Luigi Tansillo, un poeta lucano di nobili origini, vissuto nel XVI secolo, il quale, oltre a una meravigliosa abilità versificatoria, vanta anche un’origine invidiabile: quella venosina, come Orazio, suo concittadino ben più esaltato.

Il giudizio inveterato e parziale dei critici del passato è stato spesso ingeneroso con questo scrittore, le cui opere sono state paradossalmente considerate capolavori quando ritenute di altri intellettuali come Giordano Bruno, per poi essere screditate una volta scopertone il vero autore.

Tanti i fattori che hanno determinato il rifiuto nei confronti del poeta lucano: la sua ispanofilìa, le deficienze e le manipolazioni dei suoi testi, la mancata diffusione e la conseguente scarsa conoscenza dei suoi scritti (che Tansillo è restio a pubblicare), l’inclusione nell’Index librorum prohibitorum, un’autocritica contenuta nella canzone a Paolo IV. Si è così cristallizzata l’immagine di un poeta superficiale, manieristico (nel senso deteriore del termine), prolisso e senza apprezzabili slanci creativi.

Eppure Tansillo (1510-1568), autore precocissimo che esordisce già a 17-18 anni con un’egloga drammatica (I due pellegrini), mostra una spiccata sensibilità per gli effetti coloristici e musicali della lirica e per una sicura confidenza con i grandi della tradizione classica latina e italiana: peculiarità che non possono giustificare una sua retrocessione nel marasma indistinto degli innumerevoli poetucoli rinascimentali. E questo nonostante una vita poco avventurosa e sebbene non sia stato un infaticabile promotore di sé stesso: mentre è in vita, solo 109 dei 419 delle sue liriche hanno visto la luce e persino Le lagrime di san Pietro, opera impegnata concepita per fare ammenda della sua produzione giovanile messa all’indice nel 1559, è stata data alle stampe postuma.

Proprio uno di questi compromettenti scritti del suo primo periodo di attività, risalente a quando Tansillo ha meno di venticinque anni, è davvero interessante: si tratta di un poemetto in ottave di endecasillabi, intitolato Il vendemmiatore, che in alcune edizioni si presenta col titolo ben più eloquente di Stanze di cultura sopra gli orti delle donne. Se ne desume subito il carattere ben poco catoniano o virgiliano, per quanto l’ambito e l’ambientazione bucolici siano in comune con i capolavori dei due antecedenti latini.

La storia del poemetto, ancora oggi, è misteriosa: sono giunti solo dieci manoscritti, di cui tre del XVI secolo, e varie edizioni, alcune risalenti al tempo dell’autore. La materia erotica, il tono allusivo e l’abilità poetica di Tansillo hanno fatto la fortuna dello scritto, un successo evidentemente ‘di scandalo’ che ne comporta una diffusione in tutta la penisola probabilmente fin dal 1532, anno a cui risale la lettera con cui Tansillo invia e dedica il poemetto al nobile Jacopo Carafa.

Così, nel 1534, uno stampatore napoletano, attratto dai potenziali ricavi, decide di pubblicarla senza il placet dell’autore e infarcendola di inesattezze (di questa edizione, in ottantadue ottave, non è giunto alcun testimone). Dal 1537 al 1549, appaiono alcune edizioni dell’operetta, tutte costituite da settantanove ottave; dal 1549 in poi, ne compaiono altre ancora, nelle quali il numero delle stanze arriva sino a centottantatré. Tutt’oggi, dunque, l’autenticità del testo rappresenta un problema, poiché manca un manoscritto originale o un’edizione controllata direttamente dall’autore; tuttavia, si tende a dare credito alla versione da settantanove ottave, sia perché, come afferma Francesco Flamini, nei tre manoscritti più antichi e nelle edizioni dal 1537 al 1546 è presente il testo breve del poema, sia perché in questa versione l’opera ha carattere «gioioso e non lascivo», non superando mai certi limiti di decenza, abbondantemente varcati dalle interpolazioni delle versioni successive. In più, già poco dopo il 1547, in un sonetto Tansillo si rammarica di aver scritto l’operetta («Il che fin dentro l’anima mi grava / qualor vi penso, e parmi aver errato, / benché l’età d’allor me n’escusava»), e quindi difficilmente avrebbe acconsentito a ripubblicare un’edizione ancora più licenziosa del suo scritto. È dunque la versione breve de Il vendemmiatore che considereremo.

Nella dedica che prelude ad alcune edizioni, si fa riferimento al luogo e all’occasione che determina la stesura del poemetto. In Campania, infatti, sin dal tempo di Orazio (che ne parla in Satire, II 7) è diffusa un’usanza, la festa della vendemmia, durante la quale accade che i plebei possano insultare impunemente gli uomini e le donne nobili e altolocati; «e quelli che più che gli altri si vagliono di questa libertà di dire, sono coloro che stanno colle scale sugli arbori, vendemmiando le uve: come fa ora il nostro vendemmiatore, che vendemmia e ragiona non meno con coloro che passano, che con le donne che gli stanno d’intorno raccogliendo le uve». Come testimoniano anche Ambrogio di Nola nel suo Opusculum del 1514 e, più tardi, Giambattista Vico nella Scienza Nuova, si tratta di una ricorrenza durante la quale i vendemmiatori si abbandonano a ogni tipo di oscenità verbale, ostentando mancanza di pudore e deridendo chiunque osi anche solo riprenderli delle loro parole lascive o offensive. In verità, il carattere osceno del poemetto deve essere ridimensionato, se si considera che, nella revisione dell’Index librorum prohibitorum del 1562, scompaiono sia il nome di Tansillo che quello de Il vendemmiatore; non che manchino le ottave più audaci, ma queste non intaccano il tono generale dello scritto, che risulta in prevalenza gaio e allusivo, piuttosto che torbido e (indecentemente) diretto.

Nella prima delle sue tre parti, il poemetto tocca alcuni argomenti di spessore, come il carpe diem in una sfumatura meno malinconica, percepita attraverso il filtro dell’Umanesimo civile e fiorentino, sulla scia del filone carnascialesco che ha nel Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici il suo esempio più fulgido. La seconda sezione, dedicata agli orti femminili, è la più scabrosa: l’autore sviluppa il paragone implicito tra la donna (l’orto) e l’uomo (l’ortolano), giocando sulle diverse modalità del lavoro e sui tempi della vendemmia attraverso un linguaggio equivoco. Il terzo e ultimo segmento, dal sapore bembiano, consiste nell’elogio di una portentosa pianta da coltivare nei giardini. Il poemetto si chiude con l’auspicio del vendemmiatore che la Vergogna vaghi distante dalle sue ascoltatrici.

La voce del vendemmiatore «fatto di rustico uom culto poeta», che parla in prima persona per tutta la durata del poemetto, incalza da subito l’immaginario pubblico femminile della sua lunga arringa, esortandolo a concedere l’amore ai pretendenti, pena il rischio che «s’adiri il Ciel con voi, donne superbe, / che negli orti ond’ei diede a voi ‘l governo / languir lasciate i fiori e morir l’erbe!» (4). L’incitazione scherzosa, dove viene chiamato in causa addirittura Dio, che non tollererebbe l’incuria negli «orti» delle belle fanciulle, è puntellata dal topico monito, vagamente oraziano, in cui si sollecitano le donne che hanno «rigidi i cuori» a non lamentarsi della vecchiaia e a non pentirsi, poi, dopo una giovinezza mal spesa:

Non si doglia d’altrui, né si lamenti / chi dà cagione ei stesso a’ suoi tormenti», e ancora: «fra tutti i martir, donne mie care, / nessun ve n’è maggior del pentimento.

Interessante è il tono semiserio: se infatti, da un lato, il contesto ludico dell’operetta legittima una lettura in chiave giocosa di queste parole, il retroterra culturale che agisce in questi versi, con l’aura della lirica oraziana sullo sfondo, fa scaturire una sorta di tensione riflessiva, che trova riscontro e approfondimento nelle ottave seguenti (5-7, ma il tema punteggia tutta l’operetta). Ed è così dunque, in un’ottava che merita di essere letta tutta, che il vendemmiatore può esclamare:

E qual ingratitudine si vede, / o donne, che tra voi non sia maggiore? / La terra, che a far frutto il Ciel vi diede / con la pioggia del nostro dolce umore, / per colpa vostra secca, arida siede, / e nel suo seno ogn’erba, ogni fior more. / Oh quanto spiace al donator gentile, / quando vede i suoi don tener a vile! (10).

Ebbene, se finora il lettore meno smaliziato avrebbe potuto interpretare le metafore candidamente, adesso questa possibilità svanisce del tutto e diventa (fin troppo) palese che il poemetto sarà giocato sui doppi sensi, talmente chiari da non necessitare spiegazioni ulteriori: cosa siano sul serio la «terra» e l’«orto» delle donne, nonché la coltura dell’uomo, viene lasciato alla sagacia del lettore, che ride di gusto quando intende in cosa consista l’eloquente «pioggia del nostro dolce umore» (ossia ‘dolce liquido’).

Proprio l’irrigazione, fra le prime preoccupazioni del buon ortolano, ha una certa rilevanza, poiché è pressante l’urgenza che le donne trovino chi irrori infaticabilmente i loro campicelli: «Trovi ciascuna al suo giardin beato / chi notte e dì s’ingegni e s’affatighi, / il terreno lavori, e l’erbe irrighi» (27). Ma, aggiunge il vendemmiatore, «convien primieramente / a chi quest’inclit’arte oprar desia, / che d’ogni tempo ed abondevolmente / degli strumenti suoi provisto sia»: questi attrezzi del mestiere, naturalmente, sono «zappa, vomero e pal sodi e securi, / che quanto più s’adopran più stien duri». Non serve rimarcare che la turgidità degli attrezzi contadini allude a ben altre turgidità. I ferri del mestiere, è risaputo, per essere adoperati al meglio necessitano di una condizione fisica adeguata: l’ortolano, quindi,

convien che i membri abbia robusti e sani / che, per spesso chinar, per spesso alzarsi / stanco dal bel lavor non s’allontani; / e, perché possa ovunque vuol girarsi, / il corpo abbia leggier, destre le mani; / colme medolle abbia di caldo umore, / acciò che sudar possa a tutte l’ore (33).

Uno sforzo incessante e una fatica indescrivibile per un lavoro che richiede dedizione assoluta: ma, del resto, l’orto non può essere trascurato.

Il vendemmiatore, dal canto suo, vanta una sicura esperienza in materia di coltivazioni, siano esse notturne e diurne, estive e invernali; infaticabilmente, ara e zappa il terreno con invidiabile vigoria, senza mai stancarsi:

Fortunato il terren c’ha il mio governo! / Chè più che ‘l dì v’intendo ancor la notte; / nè per molto zappar, la state e ‘l verno, / l’invitte forze mie son sceme o rotte. / Quel che tormenton l’alme ne l’inferno / non dan con tal poter qual io le botte; / tal, che non pure il ferro a dentro caccio, / ma vi caccio anco l’asta infino al braccio (35).

L’abnegazione del vendemmiatore nello zappare supera persino lo zelo dei diavoli dell’inferno, noti per la dedizione con cui infliggono pene e dolore con le loro sferzate. Appena ha finito di dissodare con foga, il vendemmiatore protrae le sue cure:

Pria, con la falce in man, la terra scopro, / indi nel grembo suo lieto mi calo, / e col mio corpo tutta la ricuopro», finché utilizza l’imprescindibile paletto, piantandolo «nel bel sen tutto», cosicché «cava, né mai dal suo cavar si tolle, / fin che col mio sudor fo il fosso molle (36).

Molte altre sono le attenzioni, le operazioni, le pratiche specifiche che, meticolosamente, il vendemmiatore attua nel campicello, e la sua vigoria è tale da consentirgli sino a nove ‘cavate’ e più alla volta; né lo scoraggia il dover ricorrere all’aratro quando il terreno è «duro e aspro» (e qui, per cogliere il reale significato dell’espressione, si faccia viaggiare la fantasia). Il lavoro è arduo ma gratificante, addirittura piacevole, e tanta goduria è sublimata nel desiderio del vendemmiatore di una metamorfosi nel suo attrezzo («trasformarmi tutto in palo vorrei»). Il rendiconto della pratica contadina prosegue, preciso e dettagliato, con riferimento ai «buoi» che danno forza al «vomero» e, imprescindibile per ogni orto che voglia fruttare, all’«acqua, che la terra rende / et umida e feconda», che è «più che mel dolce, e più che latte pura». Che razza di bestie siano questi buoi, che tipo di avanzamento nel terreno garantisca il vomero, che proprietà nutritive possieda l’acqua, è facile immaginare.

Poi, dopo un doveroso (e quanto mai opportuno) encomio di Venere, Bacco e Priapo, il vendemmiatore giunge all’apice della sua orazione, dispensando una fondamentale consulenza botanica: la domanda, postagli da «qualche pura verginella», è «qual pianta», «qual erba è quella / ch’a gli orti vostri meglio si convegna, / o seminar si possa». Cosa piantare negli orti? Va da sé, la questione è di importanza cruciale. Per il vendemmiatore, non si addicono a questi giardini né erbe odorose come il mitologico amaràco, il profumato serpillo e l’aromatica eruca; non valgono meraviglie della natura quali i gigli, gli acanti e le rose; non adornerebbero a dovere i più bei fiori che si possano cogliere. No: la pianta giusta è quella il cui «sugo, che premendola ne scorre», ha un potere curativo straordinario, tale da riportare in vita chi rasenta il trapasso.

È una pianta estremamente pregiata e non nasce «in altra parte, / che negli orti» femminili, ed anzi è tanto rara «che non può donna alcuna / tenerne a un tempo al suo giardin più ch’una». La sua virtù la rende sempre fresca e verde, persino quando «la notte cresce» e quando s’approssima l’inverno, e «se divien talor languida» e quasi appassisce, prontamente «si ristora in un punto e si rinverde». Questa pianta miracolosa ha il potere inusitato di rinfrancare gli animi delle fanciulle spaventate dall’«oscura notte» o da fantasmi e brutti sogni, ed è in grado di fugare ogni timore semplicemente «tenendola in seno», dacché «rallegra il cuore». E ancora, fra le sue meraviglie, essa prodigiosamente «fa le brutte [donne] subito abbellire», può vantare una facoltà consolatoria non indifferente in quanto «rasciuga il pianto» a chi ha gli occhi lucidi di lacrime e, si pensi, risolleva persino dal «cordoglio» funebre.

Dinanzi al pubblico femminile strabiliato dalle stupefacenti facoltà di questo portento vegetale, dopo dieci ottave di attesa spasmodica, il vendemmiatore ne proclama solennemente il nome: «Quella [pianta] non mi sovien come si chiama / dagli ortolan di Roma, a un certo modo / che vuol dire menta piccola tra noi» (69). Il gioco di parole allusivo è chiaro al lettore che ha confidenza con il latino (al quale Tansillo rivolge l’operetta): la «menta piccola», nella lingua antica di Roma, è la mentula, ossia il membro virile, parola dalla quale derivano le varie formazioni linguistiche con cui lo si nomina nel Mezzogiorno, e soprattutto in Sicilia. Con dovizia di particolari, l’erba miracolosa, confacente ai giardini femminili, è minuziosamente descritta dal vendemmiatore, in particolar modo la sua radice scura e la sommità purpurea: da qui, al solo tocco femminile, sgorgano fluenti «latte e mel» (come non pensare, blasfemamente, ai biblici latte e miele che gli ebrei avrebbero trovato nella Terra di Canaan?). L’erba in questione, ammette il vendemmiatore, è davvero antiestetica, ma il rassicurante distico finale dell’ottava 71 ovvia al problema: «Se [la menta] non avesse in sé molta vaghezza, / attendete il valor, non la bellezza». Insomma, questa menta, seppur sgradevole a vedersi, ha una virtù encomiabile: e quindi, la si coltivi.

Il fascino di un testo del genere, se filtrato e sintetizzato piuttosto che fruito direttamente e per intero, viene inevitabilmente a smorzarsi; resta però l’eccezionalità di un poema edonistico, che si regge in un mirabile equilibrio tra pruriginosità e eleganza. L’oscillazione continua tra la delicatezza dell’espressione e l’indecenza del contenuto, tra la nettezza dei significanti e l’immoralità dei significati è la vera grandezza del poemetto, che dà, a ogni ottava, l’impressione di non riuscire a scadere nella spurcitia. La risata, che dopo cinquecento anni l’operetta riesce ancora a strappare, è un segno della vitalità non solo di certi temi che attraversano i secoli, ma pure della vivacità della penna di Tansillo, che non ha perso la sua freschezza. Come la menta.


Bibliografia

L. Tansillo, Il vendemmiatore, a cura di J. G. Gonzàles, Matera, La Bautta 2006.

L. Tansillo, Il canzoniere, con introduzione e note di E. Pèrcopo, Napoli, Liguori 1996.

C. Rubino, Tansilliana, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano 1996.

T. R. Toscano, Tansillo, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 94 (2019).