No exit. Microscopia del sottosuolo
"Memorie del sottosuolo" di Fëdor Dostoevskij
Ero una mosca di fronte a tutto quel mondo, una schifosa, inutile mosca: più intelligente di tutti, più evoluta di tutti, più nobile di tutti, questo va da sé, ma una mosca che incessantemente cedeva a tutti, da tutti umiliata e da tutti offesa.
Un eroe antieroe, troppo intelligente, notevolmente superiore agli altri, eppure irrimediabilmente mosca, personaggio vile che sembrerebbe far eco, almeno idealmente, a quegli “umiliati e offesi”, immancabile bersaglio nel mirino creativo di Fëdor Dostoevskij. Così si definisce il protagonista del breve romanzo Memorie del sottosuolo (Zapiski iz podpol’ja, scritta nel 1864 e pubblicata in Russia nel primo numero di Epocha – rivista diretta, assieme al fratello, dallo stesso Dostoevskij – e tradotta per Einaudi nel 1942 da Alfredo Polledro). Composta da due parti – Il sottosuolo e A proposito della neve bagnata –, in cui l’io lirico analizza rispettivamente la propria coscienza e il rapporto con gli altri, l’opera potrebbe esser letta come un’intermittente richiesta d’aiuto di un uomo solo, alienato dal mondo e nemico di se stesso che grida dentro di sé le proprie pene e i propri peccati. Costantemente teso a un’autodenigrazione estrema, il tetro personaggio dostoevskijano è ormai vinto dall’odio verso quell’essere cattivo, superstizioso e sgradevole nel quale si è tramutato nel corso di vent’anni di auto-prigionia.
Ora voglio raccontarvi, signori, sia che desideriate o non desideriate sentirlo, perché non ho saputo diventare nemmeno un insetto. Vi dirò solennemente che molte volte ho voluto diventare un insetto. Ma perfino di questo non sono stato degno.
A fare da sfondo allo sfogo del protagonista vi sono un continuo susseguirsi di contraddizioni e un cocktail di ironia, sarcasmo e ridicolo in un discorso che, tra sincerità e istrionismo, giunge a svelare una sovrastruttura metaletteraria veicolata da uno stile – il cosiddetto skaz russo – rasentante l’oralità, tanto nella sua scelta lessicale e sintattica, quanto soprattutto nell’intonazione.
Io invece scrivo per me solo, e dichiaro una volta per sempre che, anche se scrivo rivolgendomi a dei lettori, è unicamente e soltanto per mostra, perché così mi è più facile scrivere.
Memorie del sottosuolo non è, infatti, soltanto un racconto, bensì un assurdo monologo con un accidentale interlocutore. Il grande autore russo pone dinnanzi al lettore una sorta di dialogo immaginario, rinnegato persino, nel quale un’anima sovraccaricata da un sottosuolo interiore espone momenti fondamentali di una vita o, meglio, di una non-vita cupa e solitaria, schivata, soltanto escogitata in un angolino recondito della società, al di là del confine dell’umanità, ove alcuna realizzazione sarebbe possibile. D’altra parte, la società rappresenta per il protagonista una vera e propria fossa dei leoni: premeditazione, sadismo e piacere del male da lui covati non vi trovano soddisfacimento, se non con personaggi deboli, come la misera prostituta Liza, sulla quale egli agisce senza fatica, tentando di annichilirla.
Il mio alloggio era il mio eremo, il mio guscio, il mio astuccio, nel quale mi nascondevo a tutta l’umanità.
Una lunga serie di elucubrazioni, non troppo stabili convincimenti e affermazioni con epiloghi del tutto antitetici delineano il ritratto del lišnij čelovek, figura tipica della letteratura russa ottocentesca. Inetto, inadeguato, incapace di agire e del tutto privo di coraggio tanto da rintanarsi in se stesso: è questo l’identikit del personaggio dostoevskijano, antesignano pensatore di coloro i quali, compiendo un balzo in avanti e passando all’azione, verranno raffigurati dall’autore come i ‘demòni’ dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1873. Incessanti picchi di dichiarata introspezione spingono questo ‘uomo superfluo’ – come viene comunemente tradotto in italiano – a sentenziare sul suo essere fino ad abbandonarsi a disquisizioni sull’esistenza umana nell’eterna lotta tra volontà e ragione e a scagliarsi violentemente contro quest’ultima, meccanismo creatore di uomini in serie.
Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, è indiscutibile, ma la ragione non è che la ragione e non soddisfa che la facoltà raziocinativa dell’uomo, mentre il volere è una manifestazione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e con tutti i pruriti.
Voi, per esempio, un uomo lo volete disavvezzare dalle vecchie abitudini e volete correggere la sua volontà, conformemente alle esigenze della scienza e del buon senso.
Il sottosuolo diventa, allora, condizione sine qua non di un emarginato dalla società, di un escluso dal consorzio umano che convintamente descrive una dettagliata geografia del sottosuolo, zona oscura e sotterranea della coscienza di ogni individuo, nella quale a brillare è un unico grande segnale: ‘No exit’.
Ma precisamente, in questa fredda, ripugnante mezza disperazione e mezza fiducia, in questo consapevole seppellirsi vivo dal dolore nel sottosuolo per quarant’anni, in questa situazione senza uscita creata forzatamente e tuttavia in certi senso dubbia, in tutto questo veleno di desideri insoddisfatti, rientrati, in tutta questa febbre di esitazioni, di decisioni prese una volta per sempre e di pentimenti che dopo un minuto si ripresentano, è racchiuso appunto il succo di quello strano godimento di cui parlavo.
L’autore traccia una mappa psicologica di un luogo metafisico i cui punti cardinali sono godimento, malignità, orgoglio e sofferenza, ma dove a regnare sovrana parrebbe essere solo ed esclusivamente un’eccessiva e implacabile autocoscienza.
Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia.
D’altronde, quella polifonia tanto cara a Dostoevskij diventa, nelle Memorie, il chiaro sintomo di un’autentica malattia, l’ipertrofia della coscienza, che condanna l’uomo del sottosuolo al peso di un mondo interiore troppo ricco, estenuante ed estremamente laborioso.
Ma tuttavia sono fermamente convinto che non solo la troppa coscienza, ma anche una qualunque coscienza sia una malattia.
Tirando le somme di una generazione di inattivi, in un mondo di “nati-morti”, di figure che aspirano ad essere “immaginari uomini universali”, la letteratura assurge ad incomparabile fonte di salvezza. In una cinica e non troppo velata critica alla società, ancora una volta i libri, amici della solitudine, dovrebbero – secondo questo spirito schiacciato verso il basso – indicarci la via per essere “uomini con un autentico e nostro corpo e sangue”.
Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a che cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare.