“Sabrina & Corina” di Kali Fajardo-Anstine – una recensione e qualche domanda alla traduttrice Federica Gavioli
la tua bellezza sarà fonte di guai.
Sul suolo del Colorado meridionale, in genere secco e facile alle crepe, quella primavera aveva nevicato e poi piovuto più del solito. Alcuni dei miei compagni di terza media decisero che era il terreno perfetto per giocare alla guerra. Presero in prestito pale e picconi dalle rimesse dei padri, sistemarono gli attrezzi sui manubri delle biciclette e si spinsero fino al confine occidentale della nostra cittadina, Saguarita, dove il paesaggio di morbidi fili d’erba ondeggianti ricordava una donna addormentata con il viso ben adagiato sul cuscino: di giorno una bionda dai capelli d’oro, di notte una bellezza corvina (Bambini di zucchero).
Sabrina & Corina (Racconti edizioni, 2021, traduzione di Federica Gavioli), primo libro di Kali Fajardo-Anstine, autrice originaria di Denver, Colorado, si apre con il proposito di dissotterrare e portare alla luce qualcosa. Nel primo racconto, Bambini di zucchero, saranno ossa, rinvenute dai compagni di classe della protagonista; è significativo che la raccolta si apra su questa scena, come a voler subito mostrare al lettore il proposito di Fajardo-Anstine: scavare, appunto, andare in profondità e portare in superficie l’esperienza delle donne ordinarie.
Sabrina & Corina raccoglie undici racconti che si leggono come un romanzo corale ambientato tra Denver e Saguarita. Fajardo-Anstine proietta il lettore in un mondo quasi esclusivamente femminile, fatto di sapere popolare, precarietà sentimentale, sorellanza. L’interesse per la condizione delle donne e delle ragazze ricorda da vicino la Sandra Cisneros di Caramelo (La Nuova frontiera, 2010) e Piccoli miracoli (La Nuova frontiera, 2019), tanto più se si pensa che entrambe le autrici sono chicane e quindi – necessariamente semplificando – cittadine statunitensi di origine messicana.
La natura ibrida dell’autrice si riflette nei racconti della raccolta, che indagano con grande complessità il dualismo e la difficoltà di vivere contemporaneamente due tradizioni in contrapposizione tra di loro. Le protagoniste di Sabrina & Corina sono le donne chicane che Fajardo-Anstine conosce bene, madri, nonne e ragazze di seconda o terza generazione che le sono state intorno tutta la vita e che ora diventano concrete in una forma diversa, solo letteraria.
In una Denver che sta cambiando connotati a causa della gentrificazione, alle donne di famiglia è affidato il compito di tramandarsi rimedi casalinghi in grado di scacciare con uguale efficacia pidocchi e malocchio, ultimo baluardo di resistenza di un mondo che sembra destinato a soccombere ai grattacieli e al ventunesimo secolo:
«Un dermatologo riesce a eliminare una verruca in quattro o cinque secondi con una bomboletta di azoto liquido. Io posso eliminarla in una notte con uno spicchio d’aglio e un cerotto. Le dita vi puzzeranno per giorni, ma la verruca non tornerà più. Non dovrete smangiucchiarla o grattarla finché il sangue non si riversa nello strato molliccio. Potrete tenere qualcuno per mano senza provare vergogna o imbarazzo. L’ho imparato dalla mia bisnonna Estrella» (Rimedi).
Le donne di Fajardo-Anstine lottano per emergere e prendere le distanze da un contesto culturale nel quale «hanno appreso fin da piccole che la loro bellezza sarà fonte di guai». Lo hanno saputo dalla televisione e da quelle che sono arrivate prima di loro; il Colorado di questa raccolta per i suoi abitanti non è un luogo accogliente, perlomeno non lo è sempre, e di certo non lo è per le Sabrine e le Corine che annaspano per restare in superficie, combattendo contro patriarcato e povertà.
Attraverso le storie delle nonne, delle madri e delle figlie di Denver e di Saguarita, Sabrina & Corina presenta un’America che non potrebbe essere più distante da quella del Grande sogno americano: il riscatto sociale, se c’è, non è mai visto come una possibilità concreta. A prevalere, piuttosto, è il desiderio di sopravvivere. Anche quando le cose vanno male bisogna ringraziare, perché sarebbero potute andare peggio.
Denominatore comune dei racconti e dei personaggi di Fajardo-Anstine d’altro canto è il fallimento di fronte alla brutalità di un Paese nel quale non saranno mai prese in considerazione e di cui tuttavia sono cittadine.
Il grande merito di libri come Sabrina & Corina è quello di contribuire alla decostruzione di un immaginario falsato del West americano, fatto di sconfinate praterie e uomini bianchi. In questi racconti c’è un altro West, raccontato da un punto di vista che – statisticamente – è meno rappresentato: quello femminile. La sensazione è di guardare attraverso il buco di una serratura, nascosti come per non interrompere la scena che si sta svolgendo di là; con i suoi racconti, Kali Fajardo-Anstine proietta luce sulle storie ordinarie e quotidiane di donne comuni, dal particolare al generale, attraverso minuziosi dettagli: le mollette, i piatti pronti del supermercato, le unghie sbeccate. Così facendo àncora la finzione al reale e traccia, in undici racconti, il romanzo di una generazione.
Tu traduci sia dallo spagnolo che dall’inglese. Nonostante le battute siano sempre in inglese e i termini spagnoli pochissimi, quanto è stato importante conoscere entrambe le lingue parlate dai personaggi di Sabrina & Corina?
È vero, i termini spagnoli non sono moltissimi, non si può propriamente parlare di spanglish, cioè il passaggio continuo da una lingua all’altra, o di termini totalmente ibridi, che avrebbero complicato non poco la traduzione. Lo spagnolo fa capolino qua e là nei dialoghi (penso all’uso affettuoso dei tanti mija, jita) oppure serve a indicare un’idea o un elemento molto specifico (malcriada, brujería, pendejo) o compare nelle varie incursioni in cucina, tra tamales, menudo, chicharrones ecc. In questi casi è facile, perché lo scarto tra lingua dominante della narrazione e lingua altra deve rimanere anche in italiano, serve a segnalare un passaggio, qualcosa che deve essere detto in quel modo lì. In sostanza direi che più che avermi semplificato il lavoro di traduzione, per me è stato entusiasmante ritrovare le due lingue insieme in un unico testo, mentre ho faticato di più nel rendere certe espressioni del linguaggio giovanile, o trovare soluzioni convincenti in alcuni casi particolari. Penso a una parola delicata e complessa come spic, un insulto usato genericamente per indicare le persone di origine ispanica negli Stati Uniti. Lo pronuncia un anglo, ovvio, per descrivere e denigrare il quartiere in cui vive la protagonista del terzo racconto, Sorelle. Siccome era impossibile trovare un equivalente davvero azzeccato, quello spic neighborhood in italiano è diventato un “quartiere infestato da messicani”, che è sicuramente un compromesso, ma che mi pare trasmetta bene il disprezzo nella voce di chi lo pronuncia.
La raccolta di Kali Fajardo-Anstine è stata presentata come “il nuovo che va incarnandosi negli Stati Uniti” e, in effetti, l’ho trovato un libro solido e fresco, molto originale. Dal punto di vista linguistico hai riscontrato la stessa forza e la stessa novità delle tematiche trattate?
Sì, credo ci sia una perfetta corrispondenza tra le storie e il modo in cui sono raccontate. Per riprendere il discorso di prima, alcuni racconti hanno un carattere più spiccatamente giovanile, sono immersi nel contesto urbano di Denver, e quindi anche la lingua dei dialoghi cambia, c’è più gergo, segue la città in continuo movimento. Soprattutto in Ogni suo nome, Tomi, Cheesman Park, ma anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Le storie sono vive e la lingua dell’autrice altrettanto, e sono d’accordo quando dici che è un libro molto solido, è una raccolta coerente in cui ogni racconto è inserito perfettamente in una cornice più ampia e dentro ai dualismi che sostengono tutto il libro.
Personalmente, nei racconti, ho visto un legame molto stretto con la produzione di Sandra Cisneros. Ci sono altri riferimenti letterari che hai colto e che ti sono sembrati fondanti?
Anch’io leggendo il libro la prima volta ho pensato subito a Sandra Cisneros, soprattutto ai racconti di Woman Hollering Creek, non tanto per la forma (più frammentaria e irregolare in Cisneros, la lingua più ibrida), ma per alcune immagini che mi hanno riportato dritta alle vicende di quelle bambine, ragazze e donne chicane. Mi ha ricordato anche le storie di Lucia Berlin, forse per le ambientazioni e la violenza di alcuni racconti, ma anche per un certo umorismo di fondo. Un altro riferimento centrale, anche se non letterario in senso stretto, sono i racconti della tradizione orale. È un aspetto molto importante, che riemerge con forza in più punti. In Sabrina & Corina c’è la storia del diavolo al ballo, in Rimedi quella dei capelli che strangolano una lontana zia della protagonista per punirla della sua vanità, nell’ultimo racconto il mito fondativo del popolo navajo. Credo che il racconto orale sia la fonte d’ispirazione più evidente e la vera base da cui l’autrice parte per costruire le sue storie.