Culturificio
pubblicato 1 anno fa in Cinema e serie tv

“Stranizza d’amuri”

una Sicilia raccontata attraverso gli sguardi

“Stranizza d’amuri”

Ccu tuttu ca fora c’è a guerra

Mi sentu stranizza d’amuri

L’amuri

Siamo in Italia durante una calda estate degli anni ’80, quella dei mondiali di calcio e quella in cui due ragazzi, come spesso accade, prima si scontrano e poi si innamorano. Il contesto familiare però in questo caso non è quello di Chiamami col tuo nome (2017) di Luca Guadagnino, non assistiamo a un discorso del padre al giovane protagonista che sperimenta l’amore per la prima volta. Qui si parla soprattutto attraverso gli sguardi.

Gli occhi pieni di dolcezza e desiderio di Gianni e Nino, ma anche quelli dell’ambiente circostante, che scrutano, giudicano, facendosi beffa di tutto ciò che esce dai confini di quella che allora era percepita come l’unica normalità possibile.

La bellezza di Stranizza d’amuri (2023), con cui Beppe Fiorello segna il suo esordio alla regia, ispirandosi per il titolo a una canzone di Franco Battiato, sta nel raccontare una terra di contrasti come la Sicilia senza limitarsi a mostrarne soltanto i bianchi e i neri, ma scandagliandone le zone grigie.

Infatti, seppur le famiglie di Gianni e Nino vengano presentate come modelli opposti, a volte la violenza si nasconde dove meno ce lo si aspetta.

La profondità dello sguardo del regista stesso è racchiusa proprio in questa capacità di sondare certe sfumature in cui bene e male si confondono, ed è difficile districare la complessità di certi legami emotivi.

Quella di Gianni è una famiglia “sfasciata”, come si dice al Sud. Il padre è andato via di casa e a sostituire la sua figura c’è un uomo che non ha alcuna intenzione di ricoprire questo ruolo, soprattutto nei confronti di un ragazzo come lui che ha già fatto tanto parlare di sé a causa dei suoi amori illeciti.

Mentre la madre, pur cercando in qualche modo di proteggere il figlio da quella scontrosità, non riesce a stare dalla sua parte fino in fondo, ma crede che la cosa migliore da fare, anche per sé stessa, sia porre fine ai suoi comportamenti sconsiderati, che rischiano di far finire entrambi senza nessuno che possa prendersi cura di loro. Li lega un affetto viscerale che si esprime in gesti intimi e fisici come pettinarsi, dormire insieme o ballare stretti l’uno all’altro in un abbraccio che però ha qualcosa di disperato. Il loro amore è caratterizzato da una dolcezza aspra, una rassegnazione a un certo tipo di vita che la madre vorrebbe imporre al figlio, che però si ribella e rifiuta di adattarsi.

A casa di Nino invece, nonostante non manchino qualche livore e gelosia, e alcuni elementi che vanno fuori certi canoni tradizionali, come lo zio hippie che abita in una roulotte e la sorella che è già una giovane madre, si respira un’atmosfera affettuosa.

Nino è un ragazzo che non dà problemi, e finita la scuola segue il padre nel suo lavoro da pirotecnico. Finché l’asma non costringe il genitore a casa, e allora ad aiutarlo arriva Gianni, che vede in lui e nella sua famiglia quello che non ha mai avuto, una via di fuga da un ambiente in cui tutti lo hanno ormai ghettizzato e si divertono a tormentarlo.

Ma siamo a cavallo tra due paesini della Sicilia dove tutti sembrano sapere tutto di tutti, i pettegolezzi corrono veloci, e certe maldicenze sono considerate inaccettabili. E così trasformano quella che pur con qualche ombra all’inizio appariva la famiglia più comprensiva e amorevole, pronta ad accogliere Gianni alla propria tavola, in un buco nero ostile che reprime ciò che è causa di disonore.

Con le sue licenze artistiche, la storia raccontata in Stranizza d’amuri si ispira a un fatto di cronaca realmente avvenuto in Sicilia, conosciuto come il delitto di Giarre. Un evento che si concluse in maniera tragica e che contribuì a dar vita all’associazione Arcigay, con l’obiettivo di creare maggiore consapevolezza e cominciare a opporsi alla violenza omofobica.

I due giovani attori protagonisti, pur con qualche incertezza, regalano attimi teneri con i loro discorsi a volte impacciati in cui sono le occhiate, a volte fugaci e nascoste, a parlare meglio per loro.

Con inquadrature che ricordano alcune scene dei film di Tornatore e le sue immagini dalle sfumature sabbiose di una Sicilia impressa in memorie lontane, eppure per certi versi ancora vive, Beppe Fiorello mette in scena una terra in cui chi l’ha vissuta può riconoscersi. Un’isola scontrosa che si discosta da facili luoghi comuni, dove accanto al sole cocente di un’estate passata a lavorare, c’è anche l’autenticità ruvida dei sentimenti e dei discorsi.

E soprattutto emerge la delicatezza di un amore che vorrebbe bruciare come i fuochi d’artificio che illuminano le polverose stradine durante le feste di paese, non preoccupandosi di nascondersi nonostante i rischi. Tra un bagno nell’acqua ghiacciata di un torrente e quella salata del mare, o sotto la violenza di improvvise piogge estive che sembrano purificare quell’aria densa di cui Battiato ha colto l’essenza nelle sue canzoni, Nino e Gianni provano a vivere la loro adolescenza e il loro rapporto fuori da schemi e preconcetti, mentre corrono spensierati in motorino.

Il loro affetto però finisce inesorabilmente per entrare in contrasto con quei legami familiari venati da una violenza di fondo, e che purtroppo talvolta non riescono ad andare oltre i pregiudizi, facendosi trascinare da una mentalità che non accetta le “devianze” e le “stranezze”, nemmeno quelle d’amore.


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