Ultime lettere da Stalingrado
È stata la battaglia che ha segnato una generazione, la più grande carneficina, il punto di svolta della Seconda guerra mondiale. Sono molti i termini che si possono usare per descrivere la battaglia di Stalingrado ma solo chi era lì, solo chi ha combattuto, ha sofferto e ha visto morire, o è morto, tra quelle macerie, può realmente darci un’immagine reale, un simulacro, di ciò che avvenne in quel gelido inverno del 1942.
Una testimonianza diretta di quella battaglia ci è giunta grazie ad alcune missive, all’epoca censurate dalla propaganda del Reich, che raccontano un dramma umano. Migliaia di tedeschi, ormai condannati a morte, reagiscono in modo diverso alla consapevolezza della fine ma una cosa li accomuna: tutti hanno perso qualcosa a Stalingrado. C’è chi ha perso le gambe, chi ha perso la fede in Dio, chi la fede in Hitler, chi sta per perdere i suoi amori.
Prima di analizzare il contenuto delle lettere credo, però, sia necessaria una breve introduzione storica.
Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, nel giugno 1941, l’esercito tedesco sembrava inarrestabile: una a una, tutte le città che si trovavano sulla strada per Mosca caddero schiacciate sotto lo stivale nazista. Centinaia di migliaia di prigionieri, addirittura milioni di morti, l’esercito di Stalin, e tutto il popolo sovietico, non riuscivano a fermare la macchina da guerra hitleriana. Ma in aiuto dei sovietici arrivò l’inverno russo. Il «Generale» che già aveva sconfitto Napoleone rallentò l’avanzata della Wehrmacht e, contemporaneamente, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, spinse i nazisti a cambiare strategia; si allungava la durata del conflitto e, con essa, era necessario avere un maggior approvvigionamento di risorse petrolifere per muovere i mezzi bellici. C’era una sola città che separava Hitler da quelle risorse nel Caucaso e, per uno scherzo del destino, quella città portava il nome del suo acerrimo rivale.
La battaglia di Stalingrado iniziò nell’agosto del 1942 e, grazie al sacrificio di migliaia di sovietici, si protrasse fino ai mesi invernali quando, con una violenta manovra a tenaglia, l’Armata Rossa accerchiò il nemico, chiudendo la VI Armata tedesca in una “sacca” sempre più stretta.
È durante questi giorni disperati che, consci della loro fine imminente, i soldati tedeschi scrissero le lettere che seguono, una testimonianza diretta della tragedia umana e militare.
La prima è di un soldato addetto ai rilevamenti meteorologici a sua moglie:
Tu eri il mio migliore amico, Monica. Non hai letto male, no: tu lo eri. […] Occorreranno quattordici giorni prima che questa lettera giunga sino a te. Nel frattempo, avrai già letto sui giornali come è andata a finire, qui. Non pensarci troppo: in realtà, tutto finirà ben diversamente. Lascia che altri si curino di trovare una spiegazione. Che importa a te e a me? Ho sempre pensato solo in anni luce e sofferto in secondi. […] cos’è la nostra vita in confronto ai milioni di anni dei cieli stellati? Sopra il mio capo stanno, in questa bella notte, Andromeda e Pegaso. Le ho guardate a lungo, presto sarò loro molto vicino.
In questo secondo estratto, invece, un pianista che ha perso quasi tutte le dita delle mani a causa del gelo, parla a sua moglie:
Io non so se potrò parlarti ancora una volta; è bene quindi che questa lettera giunga nelle tue mani e che tu lo sappia già, nel caso un giorno io dovessi riapparire. Le mani sono andate, già dall’inizio di dicembre. Alla sinistra manca il mignolo, ma, quel che è peggio, alla destra si sono congelate le tre dita di mezzo. Posso afferrare il bicchiere solo con il pollice e il mignolo. […] Kurt Hahnke – mi sembra tu lo conosca dai tempi del collegio, nel ’37 – otto giorni fa, in una piccola strada laterale alla Piazza Rossa, su un pianoforte a corda ha suonato l’Appassionata. Non accade tutti i giorni: il pianoforte era proprio lì sulla strada. La casa era stata fatta saltare, ma lo strumento, certo per compassione, l’hanno tirato fuori e sistemato sulla strada. […] Si sentiva sparare da tutte le parti, ma nessuno si lasciava distrarre; ascoltavano Beethoven a Stalingrado, anche se non lo capivano.
Alcune lettere, come quelle che seguono, sono state danneggiate dalla censura e riportano poche, ma significative, informazioni inerenti la drammaticità della situazione:
Mi sono spaventato quando ho visto la carta. Siamo completamente isolati, senza aiuto dal di fuori. Hitler ci ha lasciati. Questa lettera parte ancora se l’aeroporto è ancora in nostre mani. Siamo al nord della città […] è così dunque che si prospetta la fine. In prigionia, Hannes e io non ci andiamo. Ieri abbiamo visto quattro uomini fatti prigionieri dai Russi, dopo che la nostra fanteria ha ripreso l’avamposto. No, in prigionia non ci andiamo. Quando Stalingrado cadrà, tu lo sentirai e lo leggerai, e allora saprai che io non ritorno.
Soprattutto non ha alcun senso opporsi, e io troverei certo un modo, se ce ne fosse uno. Naturalmente, ho tentato di tutto per sfuggire a questa sorte, ma ci sono solo due direzioni: il cielo o la Siberia. La cosa migliore è stare ad aspettare, perché il resto, come ho già detto, non ha senso. Da noi certi signori si fregheranno le mani perché possono conservare le loro sedie e le loro poltrone , mentre nei giornali compariranno belle parole, altisonanti, ben listate di nero. Onoreranno sempre la nostra memoria. Non lasciarti invischiare da questa idiota montatura. Spaccherei tutto dalla rabbia, ma non sono mai stato tanto inerme!
Il tasso di fiducia nelle alte cariche del Reich è presente in numerose lettere, sotto diversi punti di vista: c’è chi crede fermamente nelle promesse di Hitler e chi inizia a palesare segni d’insofferenza.
…Che sciagura, che sia dovuta venire la guerra! […] Siate contenti però che la guerra si svolga in paesi lontani e non nella nostra amata patria tedesca. […] Siamo qui sulle sponde della Volga e facciamo la guardia. Per voi e per la nostra patria. Se non fossimo qui noi, i russi infrangerebbero il fronte e distruggerebbero tutto […] Il freddo ai russi non fa niente. Ma noi geliamo in modo spaventoso […] Noi siamo qui e quindi voi non dovete aver paura. Solo che siamo sempre in meno, e se continua così, presto qui non ci sarà più nessuno. Ma la Germania ha tanti soldati e tutti combattono per la patria. […] L’importante è che noi si vinca.
…Così ora tu sai che io non tornerò […] non capirò molto di quello che succede qui, ma il poco a cui prendo parte è già tanto da non poterlo mandar giù. Non mi si può far credere che i camerati muoiano con sulle labbra la parola: «Deutschland» o «Heil Hitler». Si muore […] ma l’ultima parola è per la mamma o per la persona più cara, oppure è solo un grido d’aiuto […] Il Führer ci ha fermamente promesso di farci uscire da qui […] Lasciami questa fede, cara Greta, io ho creduto tutta la mia vita, o almeno otto anni di essa, sempre al Führer e alla sua parola. […] Se non è vero ciò che ci fu promesso, allora la Germania è perduta […]
Siamo perfettamente consapevoli di essere vittime di gravissimi errori di comando, e certamente l’annientamento della fortezza di Stalingrado avrà ripercussioni gravissime sul nostro popolo e sul nostro futuro nazionale. Ciò nonostante, noi continuiamo a credere in una felice resurrezione del nostro popolo. Sarà compito di uomini coraggiosi e di retto cuore! Ci sarà molto da fare per voi, a casa, per togliere di mezzo questi esaltati, pazzi e criminali. Quelli di noi che torneranno, li disperderanno come crusca al vento! Siamo degli ufficiali prussiani, e sappiamo come comportarci, quando tocca a noi […].
Seguendo questo leitmotiv, colpisce particolarmente la lettera scritta da un soldato a suo padre, generale nazista:
Questa lettera sarà breve. […] Tu sei e resti in eterno un “giusto”. La mamma ed io lo abbiamo sempre saputo. Ma non potevamo supporre che avresti sacrificato tuo figlio a questa “giustizia”. Ti pregai di farmi uscire da qui […] Ti sarebbe stato facile dire una buona parola per me, ed un ordine appropriato mi avrebbe certo raggiunto. […] E sta bene, padre. Questa lettera non solo è breve, ma è anche l’ultima che ti scrivo […] E siccome né io,né un’altra lettera ti parlerà mai più, desidero rammentarti le tue parole del 26 dicembre: “Sei andato sotto le armi volontario, è stato facile tener alta la bandiera in tempo di pace, ma sarà difficile tenerla alta in guerra. Tu manterrai fede a questa bandiera e vincerai con essa” […] Non c’è nessuna vittoria, signor generale, ci sono solo bandiere e uomini che cadono […] Stalingrado non è una necessità militare, ma una temerità politica. È un esperimento cui Suo figlio, signor generale, non vuol prender parte! Lei gli ha sprangato la strada verso la vita, lui sceglierà la seconda via nella direzione contraria, una via che porta anch’essa alla vita, ma dall’altra parte del fronte. Pensi alle Sue parole, ed è sperabile che, quando tutto andrà in pezzi, si ricorderà della bandiera e la terrà alta!
Un altro tema presente in numerose lettere è l’esistenza di Dio. A parlare sono soldati che fanno fatica a mantenere la fede e un cappellano militare che si prepara, anima e corpo, alla fine:
…Se c’è un Dio, mi hai scritto nella tua ultima lettera, mi riporterà a te sano e salvo e presto. E, aggiungi ancora […] un uomo che ama ed onora la sua sposa ed il suo bambino, Dio lo proteggerà sempre. […] Sono un uomo religioso, tu sei sempre stata credente, ma ora tutto deve cambiare […] perché è intervenuto qualche cosa che manda a monte tutto ciò a cui credevamo […] Se c’è un Dio. […] Non credo più che Dio possa essere benigno, altrimenti non permetterebbe una tale ingiustizia. […] Non credo più in Dio, perché ci ha traditi. Io non credo più, e starà a te vedere come puoi venirne a capo, con la tua fede.
…Porre il problema dell’esistenza di Dio a Stalingrado, significa negarlo. Te lo devo dire, caro padre, e mi rincresce doppiamente. […] Tu sei pastore di anime, padre […] Ho cercato Dio in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo […] Dio non si è mostrato, quando il mio cuore gridava a lui […] sulla terra c’erano fame ed omicidio e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio […].
…la sera prima della santa festa, undici camerati hanno festeggiato con me il Natale, raccolti in silenziosa devozione […] Ai miei ragazzi lessi dal Vangelo di San Luca la storia del Natale, contenuta nel secondo capitolo […] e diedi loro come sacro sacrificio e sacramento dell’altare del pane nero e secco […] ed invocai per loro grazia e misericordia […] Sono molto felice di aver potuto dire a quei cuori parole di consolazione e d’incoraggiamento […] Dio voglia stendere le sue mani su di voi, amati genitori, perché si fa sera […] Noi entreremo nella sera e nella notte ben preparati […] Noi rendiamo la nostra vita nelle mani di Dio, voglia Egli usarci misericordia quando sarà giunta la nostra ora.
Infine c’è il momento più doloroso: il congedo da chi si ama, con la consapevolezza di non poter avere un futuro con loro ma con l’intento di lasciare in eredità un’impronta immortale.
Ora ti scrivo ancora una volta e poi mai più […] Mi congedo da te […] Abbiamo davanti agli occhi la nostra vita. Ci siamo rispettati e amati e abbiamo atteso per due anni. […] Ed è il tempo che può rimarginare la ferita per il mio mancato ritorno. In gennaio avrai ventotto anni, è ancora un’età molto giovane per una donna tanto bella […] Sentirai molto la mia mancanza […] Lascia passare un paio di mesi ma non di più. Gertrud e Claus hanno bisogno di un padre. […] I bambini dimenticano in fretta, soprattutto alla loro età. Guarda bene all’uomo che scegli, stà attenta ai suoi occhi e a come stringe la mano, come abbiamo fatto noi, e non sarai delusa. […] Ti scrivo queste righe col cuore pesante.[…] Ripetilo sempre e continuamente, e anche ai bambini, quando saranno più grandi, che il loro padre non è mai stato un vigliacco e che anche loro non dovranno esserlo mai.
…Caro padre, la divisione è pronta per la grande battaglia, ma la grande battaglia non ci sarà […] ciò che devo dirti in questa lettera, si può dire soltanto tra uomini. Nella forma che ritieni più appropriata lo dirai poi alla mamma. […] Tu sei Colonnello, caro papà, e dello Stato maggiore. Tu sai che significa tutto questo […] È la fine. […] Non voglio indagare sui motivi pro e contro la nostra situazione […] ma se potessi aggiungere qualcosa, vorrei dire soltanto: non cercate presso di noi le ragioni di questa situazione, ma presso di voi, e presso colui che ne è responsabile. […] L’inferno della Volga vi sia di ammonimento. Vi prego, non fate che il vento disperda questo insegnamento[…] Infine, i fatti personali. Puoi essere certo che tutto finirà in modo decente. È un po’ presto a trent’anni, lo so. Niente sentimentalismi. Una stretta di mano a Lydia e Helene. Un bacio alla mamma (stai attento, papà, ricordati del suo mal di cuore), un bacio a Gerda. Per il resto, saluti a tutti gli altri. Mano all’elmetto, papà, il tenente … prende congedo da te.
Queste Ultime lettere sono un lascito importantissimo per gli storici e per tutte le generazioni future. Una testimonianza diretta del pensiero e delle storie di chi combatte le guerre, dichiarate dai governi, in cui muoiono tanti «sconosciuti».
Tante storie che ci mostrano, sotto una diversa luce, quei soldati del Reich vittime inconsapevoli della follia cui stavano dando fiducia, ben diversi dalle forze speciali o di polizia politica che si sono macchiati di crimini indicibili.
La censura del regime ha cancellato indirizzi, nomi e dettagli dalle buste non rendendo mai possibile la consegna delle missive ai rispettivi destinatari ma il lavoro degli storici le ha consegnate alla memoria collettiva, permettendo ad ognuno di noi di leggerle e interiorizzarle, guardando la storia attraverso gli occhi dei suoi anonimi protagonisti.
Fonti
Libri:
C.Bertelsmann Verlag, Ultime lettere da Stalingrado, Einaudi Editore, Torino, 1958.
Martin Gilbert, La grande storia della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, Milano 2009 (ristampa).
William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi Editore, Torino, 1962.