“Zoo o lettere non d’amore” di Viktor Šklovskij
al cuore si comanda: storia di un carteggio quasi represso
Scusa, Alja, se la parola “amore” è uscita di nuovo, nuda, nella mia lettera. Sono stanco di scrivere non d’amore. Nelle mie lettere, come nei nostri incontri, ci sono sempre estranei: tre, quattro, alle volte un’intera folla. Concedi la libertà alle mie parole, Alja, fa che possano venire da te come cani dal proprio padrone, per giacere ai tuoi piedi.
Pubblicato nel 2002 da Sellerio editore nella traduzione di Maria Zalambani e poi riedito nel 2019, Zoo o lettere non d’amore (titolo originale Zoo ili pis’ma ne o ljubvi) è un’accorata non dichiarazione d’amore. Rivoluzionario e modernissimo antiromanzo in bilico tra rinuncia e implosione, scritto nel 1923 a Berlino da Viktor Šklovskij, padre del formalismo russo, questo libro è una belva che si dimena contro il ligio domatore, è un incendio che divampa di fronte all’impotente getto d’acqua, disillusione di un autore rassegnato.
Tu sei la città nella quale vivo, tu sei il nome del mese e del giorno.
Nuoto, salato e appesantito dalle lacrime, quasi senza emergere dall’acqua.
Sembra che presto annegherò, ma anche là, sott’acqua, dove il telefono non suona e non giungono le voci, dove è impossibile incontrarti, io ti amerò.
Io ti amo, Alja, e tu mi costringi a restare appeso sul predellino della tua vita.
Benché sia fondata su uno degli assunti più tradizionali della storia letteraria: «un romanzo epistolare preannunzia una fine tragica (almeno un cuore infranto)», quest’opera, gioiello nascosto nei meandri della letteratura russa, è un audace esperimento teorico dal titolo emblematico. Si tratta, infatti, di un paradossale carteggio di parole proibite, pronunciate e poi rinnegate, scritte e poi cancellate, un vorace romanzo costruito sul corpo esanime di se stesso, di un amore che, forse, non esiste, o che, forse, non può esistere. È la stessa donna amata a bandire i sentimenti, allontanarli, imporre un veto al fluire delle emozioni e apporre alle lettere il sigillo del silenzio. Silenzio che incombeva, già insostenibile, nel complesso quadro storico-politico di pressante repressione messa in atto dal governo sovietico, senza la quale Šklovskij non si sarebbe mai trovato a vagare per le strade di Berlino.
Mi hai assegnato due compiti.
1) Non telefonarti. 2) Non vederti.
Adesso sono un uomo impegnato.
C’è ancora un terzo compito: non pensarti. Ma questo, tu non me l’hai affidato.
Devoto servitore, l’autore non osa violare le condizioni stabilite dalla dispotica Alja. Impropriamente arrogatosi il diritto di implorare una donna che non ha tempo per lui, l’eroe-narratore tenta di divincolarsi da un’ossessione, distrarre la propria attenzione e – su richiesta dell’amata – farsi leggero, adempiendo ai doveri di scrittore critico e teorico. In Zoo l’atto creativo prende il sopravvento, il contenuto si sposta in secondo piano per lasciar insorgere la forma, denudata nei suoi più subdoli procedimenti.
E le opere nascono, come i bambini.
Vengono concepite allegramente, con gioia e senza vergogna, portate in grembo con difficoltà, partorite in modo doloroso ed in seguito vivono con amarezza.
Zoo o lettere non d’amore si spinge oltre il topos dell’amore non corrisposto tra due poli di uno scambio epistolare e si rivela occasione propizia per la penna di un affamato teorico della letteratura, il quale ben conosce i trucchi del mestiere per destreggiarsi, ammaliando, e procedere a zig zag tra detto e non detto. Tuttavia, il sentimento amoroso rimane argomento centrale del romanzo. Cambia direzione, compie un salto spazio-temporale per raggiungere quella difficile Russia da cui la “vita” aveva allontanato lo scrittore, catapultandolo in una Berlino scostante. Nella metallica capitale tedesca, come scimmie in gabbia, gli emigrati russi vivono in uno «zoo-prigione» – suggerisce Maria Zalambani – dove tentano goffamente di riprodurre una quotidianità europea.
Probabilmente si annoia, la scimmia, lontano dalla foresta. Gli uomini le sembrano spiriti maligni. E tutto il giorno prova nostalgia questo povero straniero nello Zoo interno.
Quando la patria è lontana, quando a fatica ci si guadagna un’ubicazione in un paese straniero, la creazione letteraria consente di assicurarsi uno spazio bianco, di ricostruire il proprio habitat. Questo libro è il luogo di ritrovo di personaggi celebri, cari all’autore. Da Boris Pasternak ad Andrej Belyj, dalle pagine di Zoo fanno capolino volti noti dell’intelligencija russa che Šklovskij ritrova a Berlino o, più spesso, omaggia con ricordi e citazioni. A brillare, tra questi, è il ritratto camuffato di Elsa Triolet, scrittrice russa naturalizzata francese.
La donna alla quale ho scritto non è mai esistita. Forse ne è esistita un’altra, una buona compagna e amica, con la quale non sono riuscito a intendermi. Alja è la realizzazione di una metafora. Ho inventato una donna e un amore per un libro sull’incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera. Voglio tornare in Russia.
Realtà e finzione si mescolano: Elsa Triolet è russa, ma «straniera», Alja è russa, ma «straniera». Alja è allora Elsa, «straniera» non ad una nazione, neppure a una lingua, ma a un sentimento che non le appartiene e che l’autore confina nelle gabbie di quello stesso zoo-prigione. Costretto a nascondere la struttura amorosa così come nasconde l’amore, il romanzo viene descritto da Šklovskij quale «libro sull’incomprensione».
Bevete amici, bevete grandi e piccoli, l’amaro calice dell’amore! Qui nessuno ha bisogno di nulla. Si entra solo con biglietti di favore. Ed essere crudeli è facile; è sufficiente non amare. Neppure l’amore capisce l’aramaico, né il russo. È come i chiodi, con i quali crocifiggono.
Nonostante l’etichetta – più che adeguata – di “opera sperimentale”, Zoo calca le orme del celebre carteggio medievale tra Pierre Abélard e l’amata Eloisa e del romanzo epistolare Julie ou la Nouvelle Héloïse del filosofo Jean-Jacques Rousseau, abbigliandosi da “Terza Eloisa”. Il legame con la tradizione non è solo cutaneo e, di certo, un lettore attento coglierà il “doppiofondo” di ciascuna pagina, dove, una volta espressa, ogni immagine svanisce per rinascere in un’altra forma e, smascherata ogni metafora, la realtà svela il proprio volto.
La memoria si è allontanata in cerchi concentrici. I cerchi sono giunti sino alla spiaggia scogliosa. Il passato non esiste più.
Se, come afferma Zygmunt Bauman in Amore liquido (Bari, Editori Laterza, 2014), «finché dura, l’amore è in bilico sull’orlo della sconfitta», nell’introduzione all’edizione moscovita di Zoo del 1964, Šklovskij sembra pronunciare l’estrema sentenza e superare qualsiasi sconfitta. Il tempo passa, la memoria rimuove e quello che è stato, quello che poteva essere, ormai non è più. Al lettore giudicare, discorso amoroso o finzione letteraria?
Ora mi è più facile, perché non conosco i luoghi per i quali cammini, non conosco i tuoi nuovi amici, o i vecchi alberi presso il tuo mulino.