Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

Il Barocco

la riscoperta di una perla imperfetta

Il Barocco

La consapevolezza di precarietà e debolezza che l’uomo porta con sé ha le sue radici anche nell’epoca barocca. Il Seicento è forse il secolo meno studiato nelle scuole italiane, tuttavia è da questo che scaturisce il problema della modernità, inizia cioè il conflitto culturale tra scienze umane e scienze della natura. Se il paradigma aristotelico poneva la Terra al centro di un Universo finito, la nuova scienza mise in crisi questo sistema grazie a Galileo Galilei, che fu l’ultimo ad avere pari competenze in ambito letterario e scientifico prima del divorzio tra le due culture, e che fu il primo a puntare il cannocchiale (strumento inventato in Olanda, ma perfezionato dal filosofo scienziato) verso il cielo. La scoperta dei quattro satelliti di Giove che girano attorno al pianeta e non alla Terra; della Via Lattea, considerata prima una nebulosa, una goccia di latte sfuggita alla dea Giunone per allattare i figli, ma che in realtà è un insieme di corpi celesti; la vista di protuberanze e crateri sulla superficie lunare. Queste e altre furono le cause che mostrarono la complessità di un Universo infinito e che permisero l’applicabilità dei principi della fisica ai Cieli, considerati incorruttibili e composti dalla quinta essenza, la materia perfetta. Lo smarrimento (a tal proposito consiglio la lettura della poesia An Anatomy of the World di John Donne), creatosi in un momento storico in cui la vecchia scienza non era più credibile e il sistema copernicano non aveva ancora prove oggettive, perciò non valeva ancora (vedi antiporta dell’Almagestum novum di Riccioli), fece sì che quest’epoca fu chiamata Barocco da Burkhardt nel XIX secolo, indicando un tipo di sillogismo difettoso, che non arriva a una conclusione, o una perla imperfetta, o un imbroglio in gergo napoletano.
Sull’importanza del cannocchiale si soffermò Girolamo Magagnati, poeta della corte medicea, nella sua Meditazione poetica sopra i pianeti Medicei, o satelliti di Giove, analizzandolo in tre casi in climax; partì, dunque, dagli Argonauti che solcarono il mare per una conquista materiale, passando per Colombo che coprì una nuova terra, fino ad arrivare a Galileo che ha solcato l’Etra, il cielo più lontano, scoprendo i satelliti di Giove. Così facendo, il Magagnati pose in una posizione di superiorità Galileo rispetto a Colombo, in quanto quest’ultimo scoprì una nuova terra uguale alla nostra, mentre Galileo esplorò un mondo celeste; per di più, le sue scoperte non hanno arrecato danni a nessuno, a differenza di quelle di Colombo che furono causa del colonialismo. La terza ragione, cioè la differenza tra esplorazione della terra e dei cieli, è di tipo encomiastico, in quanto i poeti erano soliti mantenere la differenza sostanziale tra cieli e terra, anche se, scientificamente, Galileo aveva scoperto che non c’era mai stata.


La perdita di valore di punti fermi, come il principio di imitazione e l’ipse dixit, portò a coprire e dissimulare il senso di disorientamento attraverso la meraviglia, lo sfarzo e l’esagerazione. Questa originalità non va intesa, però, in senso romantico, dove essa è raggiunta attraverso il sentimento e la passione, ma occorre pensare alla stravaganza ricercata in maniera razionale, cerebrale, quasi schizofrenica, come conseguenza della crisi di idee, valori e certezze. Lo sminuimento della centralità dell’uomo, se da una parte impresse in esso insignificanza e debolezza, ebbe anche l’altra faccia della medaglia, cioè la grandezza del suo pensiero e dell’intelligenza che gli ha permesso di compiere determinate scoperte (vedi i Pensieri di Blaise Pascal). Il concetto di vis veri di sant’Agostino perse la sua validità, per cui la verità non è più un sigillo che si imprime in una tavoletta di cera (ossia la mente), ma, come divulgò Locke nel XVII secolo, è una fiera che va stanata nella natura attraverso un lavoro faticoso, ma che riempie l’uomo d’orgoglio. Il non plus ultra degli antichi lasciò il posto al plus ultra attraverso l’ingegno per stabilire connessioni lontane, la curiosità e la perspicacia (perspicere, cioèvedere attraverso), doti essenziali dello scienziato che emergono ne La favola dei suoni de Il Saggiatore di Galileo.
La crisi della classicità portò alla fortuna dei generi misti, come il romanzo, già presente sin dal XII secolo, genere dinamico (copernicano) e anarchico che rispecchia la modernità, a differenza della staticità del poema epico. Anche il teatro fece la sua fortuna, divenendo un master della cultura di massa, grazie al gusto sinestetico e alla spettacolarità che servono a coinvolgere il pubblico e a immedesimarlo con il protagonista dell’opera. Un esempio lampante ci è fornito da Shakespeare in As you like it (II, 7), dove egli suddivide la vita di un uomo in sette parti da interpretare, a seconda delle età; dall’infanzia alla vecchiaia, passando per lo scolaro, l’innamorato, il soldato e il giudice, per poi terminare con una seconda infanzia, simbolo della circolarità della vita, in cui si rimane senza denti, senz’occhi, gusto, senza niente (cit. Shakespeare, As you like it, II, 7). A fornire uno specchio rivelatore della nostra vita è anche la metafora del gioco degli scacchi, in Don Chisciotte della Mancia, dove al capitolo dodicesimo ognuno dei pezzi, durante la partita, ha un ruolo particolare, ma una volta finita si mescolano tutti e vanno a finire nella scatola della sepoltura.
Il desiderio di accorpamento e contenimento della molteplicità causato dall’horror vacui sfociò nell’enciclopedismo inclusivo (differente da quello selettivo settecentesco) delle Wunder Kamer (Camere delle Meraviglie, collezioni) e del culto della metafora per la sua capacità di accorpare un termine proprio a un termine figurato attraverso un ground comune. La metafora barocca, in particolare, è chiamata anche metafora audace a causa di un ground quanto più ridotto possibile, così da far utilizzare l’ingegno per trovare la relazione tra cose apparentemente distanti tra loro. Caratterizzata dai requisiti fondamentali di brevità, novità, chiarezza (vedi Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro), essa si presenta come una figura additiva, non sostitutiva, in quanto da due elementi ne fa nascere un terzo.
Se poco sopra abbiamo accennato metaforicamente alla morte, occorre soffermarsi di più sull’argomento, in quanto oggetto di vera e propria ossessione in età barocca. Interessante è il dipinto Et in Arcadia ego di Francesco Barbieri, rappresentante due pastori in una selva con un teschio. L’Arcadia era anticamente una regione della Grecia, considerata incontaminata dai mali della civiltà, il cosiddetto locus amoenus; ma il teschio sta a significare che la morte è ovunque, non le si può sfuggire, nemmeno nei luoghi più integri e puri. Questa presenza ossessiva si riscontra anche in un madrigale appartenente alla Galeria del Marino, La strage de’ fanciulli innocenti di Guido Reni, dove egli si immagina l’artista mentre dipinge il quadro, dando vita di nuovo ai fanciulli con la sua arte, ma, allo stesso tempo, facendoli morire per la seconda volta. Il fabro gentil fonde nel quadro la bellezza e il decoro delle forme di estetica classicistica con l’orrore del contenuto, creando l’effetto del sublime attraverso l’esasperazione, l’iperbole e l’eccesso barocco.
L’insignificanza e la debolezza dell’uomo vennero accentuate dalla consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo che trasforma le cose, concetto già presente nel Quattrocento (Poggio Bracciolini, De varietate fortunae) e diffuso in tutto il Cinquecento; dunque, nel Seicento, le rovine vennero intese in maniera ancora più drammatica e, da ciò, ne derivarono un senso di precarietà e tensione verso qualcosa di stabile che portarono, di conseguenza, a un nobile culto di esse, prova lampante della vanità dell’uman fasto (cit. Maffeo Barberini, Dalle ruine di Roma si riconosce la poca stabilità delle cose terrene).
Il Seicento è un secolo da riscoprire.


Articolo a cura di Gregorio Volpi