Gianmarco Canestrari
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

Un canto alla vita

la poetica di Giacomo Leopardi

Un canto alla vita

Al centro della riflessione di Leopardi si trova un motivo ricorrente, la problematicità dell’esistenza. Nelle pagine più belle e affascinanti dello Zibaldone egli arriva ad individuare le cause di tale infelicità: la felicità dell’uomo consiste nel piacere sensibile e materiale, ma egli non desidera un piacere, bensì il piacere. L’uomo aspira cioè al piacere duraturo, eterno, infinito. Siccome nessuno dei piaceri che esperisce nella vita soddisfa tale desiderio, nasce in lui un senso di vuoto, insoddisfazione esistenziale. Nell’uomo è connaturato così tale desiderio di infinito che però, non potendolo sperimentare qui ed ora, in tale esistenza, fa crescere nell’uomo la sfiducia verso la vita stessa, verso l’apertura d’essere che caratterizza la persona umana. Tale infinità però, sottolinea più volte Leopardi, non è da intendere in senso religioso o trascendente ma in senso materiale e contingente. L’uomo leopardiano è insomma, per essenza, eternamente infelice, insoddisfatto della propria vita. Ma a tale situazione può porre rimedio la Natura, vista da Leopardi come la “madre buona” dispensatrice di doni: attraverso le illusioni e i phantasmata la Natura ha velato e nascosto agli occhi degli uomini la loro effettiva condizione esistenziale. È così che l’uomo può essere felice e spensierato, di fronte al dramma dell’esistenza: ne sono un esempio quei “popoli di natura” come i Greci e i Romani. Con il progresso e lo sviluppo della civiltà l’uomo si è allontanato da quella condizione ideale e paradisiaca che ora si mostra in tutta la sua spietatezza. Tutta la prima fase del pensiero leopardiano è costituita dalla nota antitesi natura-ragione: gli antichi erano capaci di azioni grandiose, titaniche, che li hanno resi famosi ai posteri, e li hanno permesso di dimenticare il sottofondo negativo dell’esistenza. Con l’avvento della modernità e l’eliminazione delle illusioni “salvifiche”, si è spento tale slancio verso l’eroicità e la grandezza tipiche delle civiltà antiche, portando odio, corruzione e viltà. Tutta l’infelicità che governa la vita umana è attribuibile all’uomo stesso che con la sua supervia e il suo sentimento d’orgoglio si è allontanato dalla vita indicata dalla Natura. Ecco allora che si delinea, nella riflessione di Leopardi, un duro attacco alla società contemporanea, bilanciata però dall’esaltazione del poeta come l’unica fonte che mantiene alti gli antichi ideali, e si erge con la sua grandezza al di sopra della meschina civiltà occultatrice dei veri valori. Non bisogna dimenticare che il pessimismo storico dell’Autore è frutto della consapevolezza della relatività della felicità delle origini, del suo carattere illusorio e ingannevole.

 

Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vòto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi (G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 72; 1898, Vol. I, p. 185)

 
Nella riflessione di Leopardi però quella che era una Natura bella, buona e benevola, si trasforma ora in una Natura che non agisce tanto per il bene degli individui, ma per la conservazione della specie, e da cui se ne deduce che il male rientra nel piano stesso della Natura. Quella stessa Natura che ha messo nell’uomo il desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi adatti per agire in quest’avventura. L’ambiguità del male viene fatta risalire alla potenza misteriosa del fato: un fato maligno avversario della Natura benigna e dispensatrice di bene. Ben presto però Leopardi cambierà la sua concezione della Natura, la quale si mostra non più come madre amorosa e provvidente ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte dei suoi figli, retta da leggi crudeli che prevedono la distruzione e l’annientamento delle creature: si arriva alla concezione non più finalistica ma meccanicistica della Natura. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo nella Natura cieca e crudele.

©accademiametafisica.org

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L’uomo diviene da causa a effetto e “vittima” della crudeltà della Natura. È qui tratteggiata la visione di una forza meccanica inconsapevole, retta da leggi non regolate da una mente provvidente, una sorta di semidivinità malvagia, che opera per far soffrire le sue creature. L’infelicità umana si delinea allora non più come assenza di piacere ma è dovuta soprattutto ai mali esterni: morte, vecchiaia, sofferenza. Se la causa dell’infelicità è dovuta alla Natura, ne consegue che tutti gli uomini sono infelici, poiché vittime del male esistenziale. Al pessimismo storico succede un pessimismo denominato cosmico: tutti gli uomini soffrono e sono afflitti dall’infelicità e dall’inerzia verso la vita. Di fronte a questo dramma cosmico rimane solo la contemplazione della verità e il comportamento dell’atarassia, del distacco sapiente dalla vita causa e fonte del male. Se le visioni paradisiache sono negate in vita, l’uomo può figurarsi piaceri infiniti tramite l’immaginazione e porre così rimedio ad una vita infelice. Lo stimolo che permette il crearsi di una “realtà altra” rispetto all’esistenza materiale, è il sentimento del vago, dell’ignoto e dell’indefinito. Qui si basa tutta la visione leopardiana della visione: è gradevole e “musa” ispiratrice per le idee vaghe e indefinite, la vista impedita da un ostacolo (es. la famosa siepe). La teoria del bello poetico, suscitata dalle parole “incantatrici” come “notte, eterno, infinito, lontano”, nella produzione di Leopardi viene a coincidere con la teoria del ricordo di ciò che ci ha affascinato da piccoli. Gli antichi sono i maestri di tale poetica fanciullesca preclusa invece ai moderni, che con la ragione, si sono allontanati dalla natura e dalla contemplazione del cosmo. La poetica di Leopardi ha suscitato grande ammirazione nei pensatori successivi, tra i quali spicca il nome di Arthur Schopenhauer, uno dei più grandi filosofi anti-hegeliani. Anche nel sistema schopenhaueriano tutto è centrato sull’insensatezza e sul carattere di sofferenza che pervade il mondo dal quale si può evadere attraverso l’annullamento della voluntas e l’estinzione nel nirvana. La similarità tra le due vie di pensiero può essere riassunta dal noto aforisma schopenhaueriano: Tutta la vita è “un pendolo che oscilla tra dolore e noia”. Ciò che li distingue è che Leopardi non intravede via d’uscita da questa tragica situazione, mentre in Schopenhauer l’àncora di salvataggio è costituita dalla compassione per il dolore degli altri. Ciò che sottolinea la grandezza di Leopardi è il fatto che si mostra come il poeta della vita, l’eterno ricercatore della pienezza e della gioia vitale, di una vita energica e attiva e che anela ad arrivare a toccare quel cielo così infinito e lontano che attraverso i suoi versi si mostra a noi più vicino che mai.