“Sylvia” di Leonard Michaels
o sul debito del sentimento
Non tutti sono sopravvissuti a questa storia. Ma nel racconto, quando la storia è stata trascritta, tutti hanno fatto ritorno. Questo libro di Leonard Michaels, tradotto da Vincenzo Vergiani per Adelphi, si presenta come un debito nei confronti di Sylvia; è un debito di sentimento.
Cominciamo, per una volta, dalla fine. Da Leonard Michaels che in un appartamento del Michigan cerca di ricomporre frammenti di vita quotidiana, affetto da quella malattia emotiva che lascia svuotati di ogni sentimento umano; che fa vedere le cose – e le persone – quando non sono più. Da solo, da quando Sylvia Bloch – la Sylvia del romanzo –, che era stata sua moglie, non c’è più. Michaels mette insieme tutta una vita, i ritagli di diario, gli angoli consumati di un piccolo appartamento a New York: probabilmente le parole di questo romanzo nascono proprio da lì.
Riprendiamo la storia dal principio. Leonard Michaels – io narrante – dopo un paio d’anni di corsi post-universitari fa ritorno a New York senza avere idea di cosa fare, senza voler più seguire altre lezioni, mosso soltanto dal desiderio di scrivere. Attraversa la città e ne restituisce tutte le contraddizioni e i punti vivi, l’asfalto spaccato, le scritte sui muri e le frasi delle canzoni che dettano i sentimenti; descrive le tante, tantissime persone inghiottite dal traffico o dal treno della metropolitana, persone che riaffiorano in un mercatino dell’usato, che si muovono nei bar o nei negozi sempre nuovi, appannate infine dalla notte umida e pesante.
Finché non arriva la folgorazione dell’eccesso, il racconto di certe forme del vivere o dell’arte in cui al singolo è dato di superare il proprio sé. In cui le passioni più violente vengono sublimate. Gli accade un giorno di entrare in un palazzo, di fare i sei piani di scale per vedere la stanza che finirà per affittare e di trovarla lì, abbandonata alla parete, scalza e i con i capelli bagnati; per i quattro anni successivi, scrive , il dubbio su cosa fare della sua vita veniva di colpo risolto.
Si potrebbero contare le volte in cui gli aggettivi folle, disturbato, feroce, compaiono insieme all’erotico e al campo semantico dell’intimità; sono innumerevoli, perché Leonard e Sylvia sviluppano una vicinanza ferina, di eccessi collerici, di urla che rimbalzano contro le pareti smangiate dell’appartamento, tornano indietro e centrano il colpo; Sylvia non si lamenta mai di quella casa stentata e senza comodità, neanche degli scarafaggi, si lamenta soltanto di lui. Come in ogni schema folle, le liti cominciano dal nulla, da una parola qualunque detta in momento qualunque; Sylvia, a quel punto, fissa quel dettaglio, ci si agita dentro e ogni frammento di realtà si increspa, si fa contorto, incomprensibile. Anche il tempo si mischia, non c’è una scansione degli eventi, un prima e a un dopo il litigio, c’è soltanto un’intimità violenta, che tante volte comincia dalla rabbia e si alimenta di tutto quello che accade.
Non c’era neppure un confine. Il tempo era frammentato, causa ed effetto non esistevano, e neanche si poteva dire che una cosa portasse verso l’altra. Come in una metafora, una cosa era l’altra. Pieno di rabbia e di odio, volevo scopare, e anche lei.
Forse il dolore è egocentrico. Forse chi soffre in questo modo, più che procedere per sottrazione vuole rendersi, disperatamente, visibile. Sylvia richiama l’attenzione in modi feroci e disturbanti, buttando a terra le tazze, procurandosi ferite superficiali così che non restino i segni, urlando perché si urla contro di lei. Per lui deve esserci soltanto lei, tutto il resto, tutto ciò che ha importanza, lo scrivere, la famiglia, gli amici, tutto la getta nell’ombra, la relega ai margini della coscienza di Leonard, e forse anche della sua. La fa sentire manchevole, la offende profondamente. Diventa difficile fare o dire qualsiasi cosa, tutto potrebbe ferirla; l’essere colpevole di Leonard esiste soltanto nella testa di Sylvia, per lei stessa è complicato da dimostrare, e quindi, in ultimo, impossibile da assolvere.
Leonard la osserva per studiarla, attento, lo fa in maniera distaccata come avviene in un combattimento, pur essendo totalmente parte di quell’essere a due, pur invischiandosi con il suo malessere. Come scrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso, scrutareil corpo dell’altro vuol dire frugarci dentro; lo si esamina, lo si scompone in parti isolate – i lunghi capelli neri da orientale, la piccola, sottilissima, cicatrice sul polso, il volto lungo e levigato… – come a voler individuare unna causa meccanica del desiderio, situata non in me ma nell’altro, in quel corpo amato e del tutto separato.
Leonard ne riesce a prevedere le mosse, conosce i suoi passi nello spazio infetto del loro misero appartamento, sa che dovrebbe salvarsi attraverso la resa: «che cosa servivano le mie motivazioni? Sylvia voleva essere compatita»; troppo complicato entrare nell’interpretazione che lei dà delle cose, e ribaltarla poi al piano della ragione. Leonard le legge ad alta voce il giornale – «avevo la vaga idea che la salute mentale fosse grossomodo proporzionale all’attenzione che si dedica a quello che succede fuori della propria testa» –, la rende parte di tutto un mondo affinché diventi anche il suo, un mondo fatto di razionalità. Ma Sylvia è patologica, «non sta dalla parte della vita», scrive di lei, per individuare quell’ombra sulla psiche, quella fetta di mondo in cui le persone si immaginano di essere offese e si arrabbiano se solo qualcuno si preoccupa per loro. Come un reduce, anche lui folle, Leonard la guarda e si chiede dove risieda l’origine del suo desiderio, in quel volto feroce, in quel corpo così intimamente antagonista.
È superfluo accennare alla resa tragica di questo romanzo, tornare a Leonard Michaels scrittore nel nuovo appartamento che dà su un camposanto, da dove scruta una donna sola sempre lì, solo anche lui. La forza drammatica e folgorante di questo scritto risiede nell’aver riportato l’infermità emotiva che talvolta prende una vita molto vicina a noi, fino ad assumere totalmente le forme della nostra. E in tutto ciò rendere all’interno del romanzo l’idea che lui aveva di sé stesso, e come si modificava al tempo dei fatti narrati. Il sollievo di uscire di casa la mattina, il piacere della solitudine, di essere chi, tra i due, andava a comprare da mangiare, del compiere tutte quelle attività elementari che tengono attaccati al vivere quotidiano, tutto ciò che si mantiene reale. Questo libro si presenta come un debito, un pegno d’amore, indiscusso malgrado l’infelicità di fondo, cominciato senza un vero inizio, portato avanti nell’inevitabile come un rito sacrificale.
Portavamo con noi visioni di disperazione e tedio, ma anche l’eccitante intuizione di quel momento, di un mondo moderno in cui il vuoto poteva essere sublime, addirittura uno stile di vita, non solo per Monica Vitti e Alain Delon, ma anche per noi. Perché no? Solo i sentimenti contavano, e quelli erano a nostra disposizione. Noi capivamo.