Rocco Scotellaro: il poeta contadino
Una serie minima di riflessioni sui luoghi poetici e biografici di un autore attento alla propria terra
Domani ci sarà una terra
da ricostruire – passeranno ancora
carri, saranno ben pagati:
l’occidua industria saprà provvedere –
elettrodomestici case
macchine dalle lamiere fulgenti.
Domani ci sarà il buon vino
sopra e sotto la terra.E di noi, il ricordo, parole
Qualsiasi analisi di un autore scomparso e dei sistemi di valori, degli ideali, dei pensieri e dei sentimenti politici, poetici e terreni che, morendo, l’autore ha portato via con sé, arreca una nostalgia tale da invertire il senso della Storia e riproporre, in barba alla sequenza naturale degli eventi, qualcosa che altrimenti sarebbe Passato e dimenticato.
Eppure a Rocco Scotellaro (Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953) poeta lucano che edificò sulla politica e sulla poesia la sua esistenza, abbiamo riservato un misero angolo nella nostra memoria. Citato rapidamente dal Ferroni in un paragrafo dedicato alla Poesia neorealista e rappresentato male dalla Storia della letteratura italiana di Cecchi-Sapegno, che ne identifica il topos biografico e poetico con un vaghissimo «Meridione», Scotellaro è scomparso persino da altri manuali.
Insisto sul senso terreno della sua poesia e dei legami che egli intrattenne con la nostra terra perché Scotellaro si contraddistinse anzitutto per la serie d’iniziative che, con opere concrete per la popolazione, lo strinsero alla natia Tricarico. Nel gennaio del 1947 l’esecutivo nazionale del PSI lo ebbe nominato ispettore regionale per il lavoro giovanile in Basilicata e, attraverso la costruzione dell’edificio scolastico e l’apertura di scuole per adulti, s’impegnò attivamente anche nella lotta contro l’analfabetismo. Tutti gli interventi furono sempre animati da una centrale necessità di «rieducazione morale e politica del popolo».
Nel 1950 lasciò la politica attiva e si dedicò alle ricerche preliminari per il Piano di Sviluppo Regionale per la Basilicata, curando la parte relativa ai problemi della scuola. Nel contempo partecipò alle indagini sulla civiltà contadina in Lucania, condotte da George Peck, Friederick G. Friedmann, Ernesto De Martino. Profondo fu il suo legame con Carlo Levi. Aperto al dibattito culturale italiano dell’immediato dopoguerra, ha lasciato «un centinaio di liriche che – a giudizio di Eugenio Montale – rimangono le più significative del nostro tempo». Alla poesia, (É fatto giorno, Milano, Mondadori, 1954 – Premio Viareggio, oggi raccolta nell’opera omnia Rocco Scotellaro, Tutte le poesie. 1940-1953, a cura di Franco Vitelli, Milano, Mondadori, 2004) si affianca la prosa con Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954, una raccolta di testimonianze di vita di contadini meridionali, e con il racconto autobiografico L’uva puttanella, Bari, Laterza, 1955. Seguono le prose giovanili di Uno si distrae al bivio (prefazione di Carlo Levi, Roma-Matera, Basilicata Editrice, 1974) e di Giovani soli a cura di Rosaria Toneatto (prefazione di Leonardo Sacco, Matera, Basilicata Editrice, 1984). Lo spessore della produzione poetica di questo «precoce e sfortunato maestro del nostro neorealismo», tradotta in varie lingue, emerge dalla sua terra fino a raggiungere «toni lirici di portata universale». 1 Riesaminando anche l’altra definizione che spesso gli si accompagna, neorealista, essa per Scotellaro può valere nel senso rappresentativo e non semplicemente letterario. Il dialetto è la lingua parlata dai suoi contadini, che sono naturalmente grezzi e scabrosi, crudi e materiali. Il loro parlare male è reale appunto; faticano ad affermarsi e a integrarsi, perché il contadino rimane sempre ai margini degli sviluppi della Storia, quella dei protagonisti. Scrive W. Pedullà che il loro parlare è un’inconsapevole flusso di coscienza, non incanalato nella letteratura, ma che ne rompe gli argini. 2
Non solo il dialetto è la cifra stilistica del neorealismo di Scotellaro, ma l’autentico furor che lo anima anche nell’impegno civile, in quanto più giovane sindaco d’Italia, e nella poesia. Scrive Biancamaria Frabotta che la sua visceralità riuscì a scansare «tutti i rischi impliciti nel folclorismo decadente di certo studismo novecentesco». 3 Egli non fu solo esteticamente neorealista, ma visse davvero ciò di cui scriveva. Le pagine di letteratura della Frabotta ne restituiscono una dignità che anche gli ultimi studi hanno tradìto: il poeta Scotellaro è anzitutto filologo, lettore attento della poesia precedente. I suoi motivi poetici che rimandano al vino, ad esempio, nulla hanno a che vedere con la definizione di santo bevitore. Propongo di seguito una poesia che, già a una prima lettura, rimanda a topoi poetici tutt’altro che popolari.
Sempre nuova è l’alba
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
Che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra.Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
C’è nel recupero evidente di Orazio e della sua celebre ode (quindi, di rimando, il greco Alceo) filologia e senso profondo della sua terra. Orazio era nato nella stessa Basilicata e Scotellaro, attraverso il topos del vino, spera d’inserirsi nel medesimo tracciato. «Il vino rappresenta il microcosmo del poeta: il simposio, il convito, il richiamo alle radici, al nero liquore che Orazio versava […] è il solo modo per fermare l’attimo fuggente, per immergersi nel solco della vita».4 Il motivo del vino ritorna in un’altra poesia, laddove però Scotellaro non ha da brindare. Con il pessimismo lucido che pervade la sua opera, il poeta ha riconosciuto di aver perso i primi ideali, aver varcato una soglia oltre la quale ha perso se stesso; ha smarrito i valori della terra, dell’originale politica. Come Pavese, ha scoperto il gorgo, la propria impotenza, dopo una “gioventù olimpica”.
Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.
Alla civiltà contadina Scotellaro guarda costantemente attraverso la madre. Citando Carlo Levi, da lei egli prese in eredità “il senso poetico del mondo” e in lei ebbe sempre un riferimento evidente dei valori della stessa civiltà a lui cara. Una donna che non ebbe mai abbandonato il velo nero e altri costumi di vedovanza antica, che sempre Levi ricorda in alcune pagine delle Tracce della memoria. Il rapporto tra Scotellaro e la madre è fonte viva della sua poesia, ben consapevole egli che Francesca Armento (questo il suo nome) conservasse nelle sue forme sincere il profondo legame con il mondo popolare, il mondo arcaico. Proprio la madre ce ne tramanda il ricordo più sincero e vivido, consegnando alla nostra memoria il ritratto di Rocco Scotellaro fin nelle sue ultime ore. Nelle pagine di Dalla nascita alla morte Francesca Armento lamenta la perdita del caro figlio, sui motivi di una litania folklorico-popolare e quelli dei threnoi greci o del Planctus della Vergine Addolorata (sarà ella stessa a ricalcare l’analogia mariana). Sono rievocati gli ultimi istanti del loro dialogo, che è letterario oltre che affettivo, «basato sul culto della parola scritta, sulla sacralità della poesia». 5 La poesia che per Scotellaro fu sempre un’urgenza, anche nelle ultime ore della sua vita.
1 R. Scotellaro, Tutte le poesie. 1940-1953, a cura di Franco Vitelli
2 cfr. Dalla resistenza ai fatti d’Ungheria, in Storia generale della letteratura italiana, Vol. XIV, Il Novecento. Le forme del realismo, Milano, Federico Motta,2004, p. 659
3 Poeti del secondo Novecento: tre generazioni a confronto, ivi, Vo. XIII Il Novecento. Le forme del realismo, Milano, Federico Motta, 2004, pp. 381-382.
4 Maria Teresa Imbriani in LEUKANIKÁ. Rivista lucana di varia cultura, anno XIII (2013), numero 3.
5 Maria Teresa Imbriani, Francesca e Rocco: una vita lunga un sogno in Francesca Armento, Dalla nascita alla morte di Rocco Scotellaro. Il racconto e le immagini, Galatina, Congedo, 2011, p.16.