Neuroscienze e comportamento sociale
un articolo semiserio su come non essere delle brutte persone
Immaginate per un attimo di avere la necessità di capire come funziona una macchina in grado di fare tantissime cose, senza avere la possibilità di poterla aprire, né di guardare cosa c’è dentro. Mettetevi comodi e immaginatevi in una stanza, questa macchina sta di fronte a voi; qual è la prima cosa che fareste?
Questa domanda potrebbe sembrarvi inusuale; potreste pensare infatti che solo poche persone sulla faccia di questa terra lavorano o hanno a che fare con delle “macchine”; molte altre non si occupano di questo, eppure posso affermare con certezza che ognuno di noi deve fare i conti con questo problema ogni giorno della sua vita.
A questo proposito, per darvi un indizio, potrei citare il monologo iniziale di un film che ha avuto un discreto successo nel 2014, Gone Girl, di David Fincher:
Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa.
Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio.
“A cosa pensi?”
“Come ti senti?”
“Che cosa ci siamo fatti?”
Ogni giorno ognuno di noi ha a che fare con la decifrazione continua degli output provenienti dalle menti delle persone che ha intorno e soltanto poche – o pochissime – volte ci è concesso fare domande dirette alla mente che in quel momento stiamo “studiando”, almeno a causa di tre ragioni:
A) molto spesso non abbiamo abbastanza confidenza con chi ci sta davanti ma, nonostante ciò, dobbiamo essere abili a capire che intenzioni l’altro abbia senza poterglielo chiedere; B) l’altro non ci dirà mai e poi mai veramente che intenzioni ha semplicemente perché non ci sta pensando esplicitamente e chiedere a un passante perché sta sorridendo dopo che abbiamo incrociato il suo sguardo è obiettivamente un comportamento che potrebbe indisporre l’interlocutore; C) non è possibile stabilire un collegamento diretto tra la nostra mente e quella degli altri. La nostra vita non è un film e quella degli altri men che meno; in altre parole: non possiamo essere spettatori, esistere e avere relazioni sociali implica essere attivi costruttori della realtà in cui siamo immersi (postilla per i timidi: anche non fare assolutamente niente è fare qualcosa. Primo assioma della comunicazione: è impossibile non comunicare. Arrendetevi.)
Cosa ha fatto l’evoluzione per noi in tutti questi anni, a questo proposito, per facilitarci in questo compito così difficile? Come facciamo a essere così bravi -chi più, chi meno- a capire cosa gli altri stanno provando, pensando o facendo, senza parlare direttamente con loro e senza montargli in testa apparecchiature da neuroscienziati?
Le neuroscienze sociali si occupano di comprendere come gli individui riescono a rappresentarsi la realtà esterna che li circonda dal punto di vista degli altri, vale a dire come questi riescano a comprendere le intenzioni, le motivazioni e le credenze altrui al fine di orientare il proprio comportamento in modo adattivo rispetto all’ambiente in cui vivono. In particolare, i neuroscienziati sociali si concentrano sullo studio dei meccanismi neurali che sottendono la capacità umana di rappresentarsi internamente le sensazioni e gli stati mentali degli altri individui.
È in particolare grazie a tre funzioni fondamentali che riusciamo a provare seria preoccupazione quando un nostro amico sta male, che distogliamo lo sguardo o ci attiviamo se vediamo una persona a noi cara trafiggersi la mano con un chiodo, che riusciamo a metterci nei panni degli altri e sentire imbarazzo nel caso in cui qualcuno a una festa inizia a fare dei discorsi fuori luogo.
Queste tre funzioni si chiamano: simulazione, empatia e teoria della mente.
La simulazione è stata studiata in particolare rispetto ai programmi motori. Quando osserviamo un altro essere umano svolgere una determinata azione, il nostro sistema motorio si attiva come se fossimo noi stessi a svolgere quell’azione. Guardare una persona che beve una tazza di caffè attiva in te le aree che si attiverebbero se quella tazza la stessi reggendo tu in mano, se quel caffè lo stessi bevendo tu. Questa simulazione interna dell’azione che stiamo guardando svolgere è essenziale per capire cosa l’altro sta facendo, inoltre è fondamentale per l’apprendimento. Lo ricordate Tabù, il gioco da tavolo, sì!?
Per quanto riguarda l’empatia, invece, si definisce come la capacità di condividere con i propri simili sensazioni ed emozioni. Attraverso questa capacità siamo in grado di comprendere cosa sente l’altra persona quando è triste, è felice, sta soffrendo il solletico o ha un dolore fisico. Come è possibile? Pare che immaginare o osservare una data persona in un particolare stato emotivo genererebbe in noi automaticamente una rappresentazione di come siamo stati noi in un momento più o meno simile e questo attiverebbe tutta una serie di risposte cognitive e somatiche che ci fanno “sentire” di nuovo quella esperienza, al fine di stare così come l’altro che ci sta a cuore sta in quel momento. Questa condivisione implicita di stati personali ci permette di metterci davvero nei panni degli altri, di usare i ricordi legati alla nostra sofferenza per capire cosa l’altro sta davvero provando. Faticoso ma utile. Tutto il resto è fuffa, cose che si dicono per circostanza. Insomma, diffidate di chi usa frasi preconfezionate per consolarvi o non vi osserva o vi ascolta davvero mentre vi sfogate, probabilmente sta “lavorando a risparmio” con voi.
Ultima per ordine di presentazione, ma non per importanza: la teoria della mente. Mentalizzare vuol dire, in parole povere, rendersi conto di non poter sempre avere la certezza di avere ragione rispetto a qualcosa. Per qualcuno parlare in pubblico è facile, per altri equivale a farsi crocifiggere. Chi ha ragione? Entrambi. Due persone diverse possono pensare cose diametralmente opposte rispetto a una stessa questione; avere una buona capacità di mentalizzare vuol dire essere capaci di capire perché la persona di fronte a noi è davvero così convinta di tutte le sciocchezze che sta dicendo. Da un lato c’è il giudizio (tutto quello che dici è sbagliato), dall’altro lato la capacità di mentalizzare (quello che dici lo stai dicendo perché hai avuto esperienze diverse dalle mie che ti hanno portato a credere in quello che dici e io mi rendo conto che non tutti vediamo le cose alla stessa maniera perché non tutti partiamo dagli stessi indizi di partenza).
Queste attività neurali – questi processi mentali – ci aiutano nella vita di tutti i giorni a non essere delle cattive persone. In quanto capacità, esse sono date di default (a meno che non ci si trovi davanti a casi di patologia cerebrale organica); grazie alle esperienze di vita queste vengono esercitate e diventano sempre più esatte e fluide (a meno che non ci si trovi davanti a psicopatologia conclamata). Più si osserva, si ascolta, si pensa al proprio mondo interno e a quello altrui, meglio queste capacità riescono a funzionare bene, decretando in un certo qual modo la nostra capacità di essere dei buoni amici, delle persone affidabili e comprensive. Il primo passo per lavorare su questi aspetti di noi è l’informazione. Vi ho messi sulla linea di partenza, iniziate pure a esercitarvi.