Le mot ne peut être que deux: la frontiera
Durate il mio noioso viaggio alla volta di Roma arriva, su Facebook, la notifica dell’Accadde oggi che mi ripropone questa citazione:
Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forme, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte. Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte.
19 giugno 2013, 19 giugno 2018: cinque anni dalla mia prima prova di maturità.
Rileggere questo passo con la copia dell’Espresso dalla discussa copertina con i faccioni di Soumahoro e Salvini sulle gambe mi ha fatto un certo effetto: leggevo l’ottimo pezzo di Wlodek Goldkorn che riflette sul significato della parola clandestino. Ancora qua, mi sono detta. Cinque anni dopo, a pensare a quanto sia necessario indagare il concetto di limite, di clandestinità e di attraversamento.
Magris su quel banco di scuola mi ha raccontato per la prima volta la precarietà della frontiera e ha spalancato la porta del dubbio dell’identità in quanto unica e pura, e oggi il ragionare di frontiere è diventato parte integrante dell’esperienza da cittadini di tutte e tutti noi.
Quando Magris scrive che le frontiere definiscono la realtà salvandola dall’indistinto è necessario precisare quindi che il presupposto identitario è la duplicità: chiamare al Nome e, quindi, chiamare alla Vita, presuppone una separazione dall’Altro. L’identità, va da sé, non esiste se isolata, unica. Le mot ne peut être que deux, scrive De Certau, storico francese con la passione per la mistica. La malattia identitaria che morbosamente cerca ordine e riconoscimento non può essere alimentata con la ricerca della Purezza, concetto che non avrebbe ragion d’essere se non esistesse, a sua volta, il concetto di impuro. Il ragionare d’identità da salvaguardare non può che passare attraverso la legittimazione dell’Altro. Ma il dualismo continua. Penso alle brillanti quanto semplici parole di Goldkorn:
Ma che cosa è un “clandestino”? […] è un essere umano sprovvisto di documenti che gli permettono di spostarsi, più o meno liberamente, nel mondo. […] Il clandestino per spostarsi deve rischiare la vita.
Come il viaggiatore di Magris, il clandestino è mortale, si spinge verso il continuo sconfinamento, corre verso il limite poiché non ha nulla da perdere. Egli si pone al di fuori della legge (l’abbiamo detto: è sprovvisto di documenti) e, quindi, al di fuori della Storia: rifugge la ragione discorsiva che abbiamo creato e a cui noi ci rifacciamo: le nostre leggi, la nostra morale. Il clandestino è, come dice giustamente Goldkorn, citando Bauman, il messaggero della cattiva notizia. Perché ci porta alla mente la mancanza di sicurezza, la precarietà. Il clandestino, come il mistico, si muove sul bordo, nel disperato tentativo della conoscenza, nel disperato desiderio dell’eccesso. Ci obbliga allo scontro con l’Altro, ci costringe a chiederci: siamo noi, i veri? Ecco che anche il clandestino è duplice: viaggia, cammina, varca frontiere. Ma sta fermo: poiché essendo fuori dai luoghi predisposti dall’istituzione, non ha un proprio posto ma, anzi, crea spazi. Impossibili, questi, da recintare, non passibili di muri, di gabbie, di de-limitazioni: se ne faccia una ragione il più arrabbiato dei politici, sbattendo i piedi a terra, lasciando bimbi urlare alla ricerca dei propri genitori.
Il clandestino viaggia e ritorna allo stesso tempo; per dare senso al viaggio, in un ciclico rincorrersi di sensi.
Ed è ciò che scrive anche Magris: viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. Non l’ho capita tutta insieme, questa, a diciotto anni, su quel banco di liceo.
La mattina della mia prima prova mi infilai dietro alla professoressa di italiano e la seguii giù in segreteria: stavano per stampare i plichi con le tracce. Li portammo su, in aula. Sbirciai: Claudio Magris. Guardai la mia prof e le dissi: ma chi è? Avevo letto Magris solo qualche volta, sul Corriere della Sera. Ovviamente non ne avevamo mai parlato in classe. Scelsi comunque quella traccia, ero curiosa. Collegai qualcosa, ricordo, con Montale, il viaggio e Joyce.
Qualche mese dopo, nell’ottobre del 2013, a Lampedusa accadeva una delle più grandi tragedie legate agli sbarchi di migranti su territorio italiano: i temi della frontiera, dei muri, dei migranti entravano prepotentemente nell’immaginario collettivo colorandosi di significati nuovi e prestandosi ad accesi dibattiti politici. Ancora oggi, cinque anni dopo.
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