Guernica. Icona di pace
a Padova fino al 5 dicembre
“È lei che ha fatto questo orrore?”
“No, è opera vostra”
Risponde così Pablo Picasso alla domanda dell’ambasciatore tedesco Otto Abetz circa tre anni dopo la realizzazione del Guernica (1937).
Opera senza reale committente, nata come pura e personale idea dal sentimento di un artista, prepotente denuncia corale, anche dopo ottant’anni dalla sua realizzazione, Guernica rimane icona delle follie belliche nel secolo breve e non solo. Furono necessari circa ventisette metri quadrati a Pablo Picasso per rappresentare il bombardamento dell’omonima cittadina basca il 26 aprile 1937 da parte della Luftwaffe tedesca che operò con l’Aviazione fascista italiana in appoggio al generale Franco durante la guerra civile spagnola. In un interno casalingo, sei figure umane, tra uomini e donne, e tre animali domestici letteralmente “fatti a pezzi” dalla rappresentazione cubista sono colti nel momento dell’inaspettato attacco aereo. L’olio venne realizzato in soli trentatré giorni nel periodo in cui Picasso stava lavorando, dietro incarico del governo della Seconda repubblica, ad un’opera che rappresentasse quella stessa estate la Spagna all’Esposizione universale di Parigi. A meno di due mesi dall’inizio dell’Expo, Picasso si trovava ancora con un nulla di fatto: il tragico bombardamento catalizzerà tutta la sua immaginazione e tutte le sue forze.
In seguito alla trasferta parigina, dove Guernica si trovava sul muro perimetrale del porticato d’ingresso al padiglione spagnolo in modo da accogliere e insieme congedare i visitatori, l’opera viaggia in Europa e in America, rimanendo poi di stanza al Museum of Modern Art (MoMa) di New York. Con il museo statunitense lo stesso artista aveva preso accordi affinché la sua grande tela ed altre sue opere rimanessero in deposito fino al momento in cui la Spagna non sarebbe ri-diventata un Paese libero e democratico. Picasso era infatti fermo sul fatto che El Guernica appartenesse al popolo spagnolo. Nel 1975 morirà il generalissimo Francisco Franco, sei anni dopo Guernica rientrerà in patria ospitato al Casón del Buen Retiro. Dal 1992 è gelosamente custodito al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid.
Per coloro che non hanno ancora avuto occasione di vedere il quadro originale, fino al prossimo 5 dicembre, in occasione del centenario dalla firma dell’Armistizio della Grande Guerra, che avvenne nella provincia veneta, è possibile ammirare nel centro di Padova presso il Museo storico della Terza Armata, il cartone che fu la base per l’arazzo-copia del dipinto, realizzato dal genio Picasso con la tessitrice Jacqueline de la Baume Dürrbach, commissionato da Nelson Rockefeller nel 1955 e tuttora esposto al Palazzo di Vetro, sede dell’ONU.
Ora, Guernica si può definire un’opera in cui l’interpretazione collettiva supera il gesto pittorico del singolo e questo fatto apre a non poche riflessioni sia sotto il più immediato profilo storico-politico che su quello artistico, adombrato e lasciato spesso in secondo piano. In quanto rappresentazione di violenza nuda verso civili, Guernica è diventata molto naturalmente un’allegoria universale e atemporale di ogni evento bellico della storia recente. Non ci sono, infatti, a ben guardare, riferimenti al luogo dell’accaduto quale villaggio di una montuosa regione del nord-est della Spagna, né sono presenti indicazioni circa il periodo storico del bombardamento. Solo la lampada in alto al centro del dipinto indica allo spettatore l’ora della giornata, il momento della cena durante la quale la popolazione basca viene colta impreparata dall’aviazione nazista. L’equilibrio della composizione è scandito dalle spaventose figure, non più esseri viventi, umani o animali che siano, ma creature deformi, risultato dei principi compositivi di quello che la critica ha chiamato cubismo sintetico. La narrazione è distribuita da destra verso sinistra, coerentemente con la sua originaria collocazione all’Expo, e in totale assenza di una prospettiva geometrica (o naturalistica). Troviamo una donna ferita che alza le braccia al cielo mentre la casa sta andando in fiamme, subito alla sua sinistra un uomo cerca di far luce con una lampada ad olio, in basso una seconda figura femminile svestita cerca di trascinarsi. Il centro della opera è occupato da un cavallo che viene nitrendo ma volta la testa in modo innaturale contro il suo senso di marcia, sotto i suoi zoccoli giacciono i resti di un soldato che ancora impugna una spada dalla lama spezzata e un piccolo fiore. Sopra, una madre urlante stringe il suo neonato, il toro simbolo della Spagna e una colomba, emblema della pace violata, concludono la triade animale.
L’inerme popolazione del tutto incapace di fronte all’attacco notturno stride come soggetto di pittura storica, genere che nei secoli era stato riservato per dare lustro ai grandi fatti di un Paese o di un personaggio attraverso la bellezza accademica dei corpi e l’ordine della composizione. Qui però le gesta sono del tutto antieroiche, non rimane nulla da acclamare, non c’è nulla di bello da vedere. Il linguaggio non realista fa da tramite.
La scena è probabilmente la stessa che si è ripetuta per secoli durante le guerre e continua a ripetersi oggi dall’altra parte di un mondo, il nostro, ancora e nonostante tutto eurocentrico. Quanto a simbolo politico, Guernica si è prestata nel tempo ad essere vessillo antifascista, socialista o comunista ma la retorica, al solito, poco aiuta l’arte.
Guernica rimane prima di tutto la risposta personale e immediata dell’uomo Picasso alla notizia dell’avvenuto attacco aereo. A questo proposito va sottolineato che la scelta di utilizzare per tutta la scena i soli nero bianco e grigio, seppur declinato in varie sfumature, si collega probabilmente al fatto che le uniche immagini che Picasso aveva potuto vedere dalla Francia del piccolo villaggio dopo il bombardamento erano quelle pubblicate sui quotidiani, vecchie fotografie in bianco e nero. Inoltre voler etichettare l’opera come manifesto politico svilisce la portata artistica del Guernica: non solo l’ascesa dei totalitarismi europei annienta la democrazia e l’umanità dei singoli ma condanna l’avanguardia artistica come utopia politica. Dissociare il valore simbolico dall’incidenza della composizione stessa sull’evolversi della storia dell’arte è per questo un errore. Al contrario riconoscere la capacità anticipatoria delle arti visive nei confronti delle destabilizzazioni storiche permette una riflessione più ampia sull’uso delle immagini nell’attuale social-società.
Riflessione che lancio a te, lettore. Ci indigniamo ancora di fronte alle barbarie? O piuttosto, rimaniamo ormai indifferenti di fronte alla guerra, alla sofferenza e alla morte?
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