Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Arte

Anna Maria Maiolino e l’antropofagia

un’identità ritrovata

Anna Maria Maiolino e l’antropofagia

Mi ritrovai immigrata, senza parlare portoghese e sentendomi come sulle sabbie mobili, sentimento che mi ha sempre accompagnata per tutta la vita da quando ho abbandonato la mia terra natale, l’Italia. Quello che mi diede forza fu la mia ostinazione a diventare un’artista.

Essere senza patria e senza radici, sentirsi estranei rispetto alla vita e alla cultura di un popolo può portare a rifugiarsi ed emarginarsi sempre di più nel proprio io, alienandosi dalla vita. C’è chi però, grazie a una raffinata anima d’artista, è riuscita a fare propria la cultura di un paese che è diventato la sua nuova casa.

Anna Maria Maiolino nasce nel 1942 a Scalea, nella Calabria della Seconda guerra mondiale, da madre ecuadoriana e padre italiano. Ultima di nove fratelli, a soli dodici anni abbandona l’Italia per trasferirsi con la famiglia in Venezuela, dove inizia a muovere i primi passi nel mondo dell’arte, frequentando la Escuela Técnica de Artes Visuales Cristóbal Rojas.

Solo pochi anni dopo, nel 1960, la famiglia si sposta nuovamente, questa volta in Brasile, a Rio de Janeiro. È qui che l’artista, proseguendo gli studi presso la conservatrice Escola Nacional de Belas Artes, si accorge che disegnare per lei rappresenta un rifugio e un conforto a una realtà estranea e, soprattutto, la aiuta ad allontanare i ricordi di un’infanzia malinconica, trascorsa durante gli anni più duri della guerra.

Entra così in contatto con quei giovani che di lì a poco avrebbero costituito il gruppo della Nova Figuração: Antonio Dias, Rubens Gerchman, Roberto Magalnhães e Carlos Vergara; con loro, nel 1967, partecipa alla mostra Nova Objetividade Brasileira, organizzata da Hélio Oiticica al Museo d’Arte Moderna di Rio de Janeiro.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, il fallimento del progetto modernista nazionale del presidente Juscelino Kubitscheck de Oliveira e l’instaurazione di un regime militare repressivo, portano gli artisti a cercare un tipo di linguaggio più inclusivo e popolare, che viene individuato nel pensiero di Oswald de Andrade e del suo Manifesto Antopófago del 1928.

Il movimento antropofago degli anni venti era nato in un contesto in cui la cultura brasiliana aveva iniziato a interrogarsi sulla propria natura, aspirando a rendersi autonoma rispetto a quella prevaricante dei colonizzatori. Oswald de Andrade si era appropriato, quindi, dell’immagine dell’indigeno cannibale riportata nei resoconti dei colonizzatori per contrapporre alla cultura europea un’identità completamente diversa, antagonistica, e quindi quasi spaventosa, che potesse liberare definitivamente il Brasile da secoli di sudditanza politica e culturale.

Negli anni Sessanta, l’antropofagia, in quanto bagaglio culturale del Brasile, si propone di contrapporre alla politica del regime, sempre più repressiva e autoritaria, un’arte popolare, kitsch e associata spesso al ‘cattivo gusto’. Gli artisti si servono delle teorie antropofaghe di Oswald de Andrade creare un linguaggio prettamente nazionale, espressione diretta e genuina del Brasile e dei suoi cittadini.

In questo clima politico e culturale piuttosto intricato, e insieme ai compagni del gruppo della Nova Figuração, Anna Maria Maiolino dà vita alle sue prime opere che mostrano, sin da subito, come abbia assorbito l’estetica delle avanguardie locali, conservando comunque il proprio interesse per una dimensione più intimistica e personale. Esempi evidenti sono le opere ANNA e Glu Glu Glu, entrambe del 1967.

La prima rappresenta due figure che a bocca spalancata pronunciano, attraverso la tipica nuvola dei fumetti, il nome dell’artista. L’opera, grazie al caratteristico espressionismo della xilografia, si allaccia direttamente alla cultura popolare brasiliana del periodo. A questi elementi formali si aggiunge l’enfasi sulle relazioni interpersonali ed affettive. Se si confrontano i due personaggi della xilografia con quelli dell’opera Minha Família dell’anno precedente, capiamo che rappresentano i genitori dell’artista. Il loro rapporto è rivelato dal nome di ANNA che entrambi chiamano a gran voce.

La seconda opera, Glu Glu Glu, rappresenta ancora una sagoma bianca, connotata nel volto solo da una grande bocca dentata, che siede davanti una tavola imbandita. Sotto al tavolo è visibile l’apparato digerente in azione.

Queste opere mostrano come Maiolino partecipi attivamente alla vita artistica brasiliana di quegli anni, trasformando in immagini figurative il concetto dell’antropofagia di Oswald de Andrade.

Dal 1971, dopo un soggiorno a New York, Anna Maria Maiolino inizia a sperimentare diversi mezzi espressivi e soprattutto a definire e sviluppare la sua immagine corporea.

Il corpo, per il quale l’artista aveva mostrato interesse sin dagli anni Sessanta, le si presenta come il veicolo più congeniale per esprimere la sua interiorità, quella dimensione intima e personale che altrimenti rimarrebbe nascosta. Il corpo rappresentato da Maiolino non proietta solo dall’interno all’esterno, ma, riallacciandosi al Manifesto Antopófago, fagocita anche il mondo al di fuori, nel tentativo di riuscire a comprenderlo.

Anche il suo primo film in super-8 realizzato nel 1973, In-Out (Antropofagia), dimostra lo stretto legame con il pensiero antropofagico di Oswald de Andrade. Il video, senza inizio, svolgimento e fine, è costituito da una serie di immagini indipendenti che, nonostante il montaggio, non stravolgono il significato dell’opera. L’inquadratura è fissa sulla bocca dei personaggi ed è talmente stretta che a malapena sono visibili il naso e il mento. Riconosciamo, però, un uomo e una donna che tentano di parlare, senza riuscirci; dalle loro bocche, spalancate e in continuo movimento, non esce alcun suono; talvolta sono bloccate, prima da una striscia di nastro adesivo nero prima, poi da un uovo e da sempre più numerosi fili di tessuto.

Questa concentrazione, quasi nauseante, sulla bocca che mastica, tenta di parlare, dalla quale fuoriescono diversi oggetti, traduce in immagini quello che aveva scritto de Andrade: ingerire il nemico per dominarlo, mangiare gli organi repressivi della dittatura per annientarli e per dimostrare che la libertà è sempre più forte di qualsiasi oppressione.

L’impossibilità di esprimersi, resa evidente soprattutto dall’immagine del nastro adesivo nero, è un’aperta denuncia della censura in atto nel Brasile di quegli anni. La rappresentazione di una sola bocca forzatamente chiusa evoca la bocca di tutti i cittadini brasiliani che soffrono e resistono.

Nella sequenza delle scene, l’assenza di parole e la loro sostituzione con i suoni rauchi tipici di un respiro affannato, fanno riferimento al sofoco (soffocamento), nome con cui ci si riferiva agli anni più duri della repressione della dittatura militare. La vita durante il sofoco viene simboleggiata anche da un oggetto che compare per la prima volta proprio in In-Out (Antropofagia) e che diventerà fondamentale nell’iconografia di Anna Maria Maiolino: l’uovo, la forma più pura mai creata in natura e dalla quale nasce la vita, per Maiolino diventa sinonimo di fragilità, ma anche di resistenza: «so easy to break and yet impossible to fix, the egg is, in itself, a contradiction: soft but hard; delicate but durable; impermanent but episodic».

L’opera di quest’artista, quindi, tenta di scandagliare le sfaccettature della fragilità umana e la dimensione di chi, come lei, si ritrova senza patria e in cerca di una propria dimensione culturale.

L’impossibilità comunicativa in In-Out (Antropofagia), infatti, può essere anche letta come il tentativo fallito di comunicare attraverso il linguaggio, più volte sofferto dall’artista nei suoi anni da immigrata.

La ricerca di Maiolino parte soprattutto dall’azione e dal lavoro manuale. I postulati estetici dell’antropofagia diventano per lei uno strumento importante: attraverso di essi esprime il bisogno e il desiderio di appartenere alla tradizione di un paese. Con il bagaglio culturale brasiliano Maiolino cerca di non sentirsi più culturalmente inferiore ed emarginata.

Il suo percorso artistico è un viaggio verso la riappropriazione di un posto nel mondo: è come se Maiolino inghiottisse l’Anna diciottenne appena arrivata in Brasile, sperduta e senza patria, e la espellesse, attraverso le sue opere, rigenerata, sicura di sé e finalmente parte di un paese che ama e per il quale vuole la libertà.

Il suo lavoro ci insegna che si può trovare la forza per liberarsi dai propri demoni, per affrontarli, mangiarli, annientarli, per ritrovare una dimensione in cui poter esprimere sé stessi senza condizionamenti o restrizioni, in cui potersi sentire parte di qualcosa di più grande.

di Silvia Magnarini