Giorgio Morandi: il genio di via Fondazza
Di nuovo al mondo non c’è nulla o pochissimo. L’importante è la posizione diversa e nuova in cui un artista si trova a considerare e a vedere le cose della cosiddetta natura e le opere che lo hanno preceduto e interessato.
Sono rari gli artisti legati indissolubilmente ed eternamente a una sola realtà, a un solo luogo. Siamo abituati a imbatterci in artisti girovaghi, affascinati dal concetto di novità. È successo a molti pittori europei della fine del XIX secolo, trasferiti a Parigi, così come ad artisti non americani che raggiunsero gli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.
È comprensibile il desiderio di essere attratti e voler raggiungere il più importante centro artistico del momento. Anche per questo motivo (oltre che per la sua bravura eccezionale) la figura di Giorgio Morandi è ritenuta unica all’interno del panorama artistico del secolo scorso.
Morandi trascorse tutta la sua vita a Bologna, dove nacque nel 1890 e morì nel 1964. C’è da dire che a quell’epoca la città felsinea non era certo la periferia del mondo, dato che nel primo decennio del Novecento festeggiò il Nobel di due sue eccellenze, Giosuè Carducci e Guglielmo Marconi.
La precoce passione per l’arte figurativa consentì a Morandi di iscriversi nel 1907 all’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’ambiente in cui crebbe artisticamente. Nel 1909, subito dopo la morte del padre, si trasferì con la madre e le tre sorelle (Anna, Dina e Maria Teresa) in via Fondazza, al numero 36. Morandi rimase particolarmente legato a questa strada: forse conosceva uno per uno tutti i suoi abitanti, anche se non ha dipinto nessuno di loro.
Morandi lavorò nella sua camera fino al 1960, quando sistemò un vero e proprio studio nella casa estiva di Grizzana Morandi, sull’Appennino tosco-emiliano. In questa seconda patria, nel 1944 teatro degli eccidi di Savigno e di Monte Sole a opera dei tedeschi, l’artista eseguì in acquerello una memorabile serie di paesaggi ispirati dalla vicina presenza dei tre Fienili del Campiaro.
La città di Bologna protesse l’artista dalle guerre e dagli altri episodi funesti della prima metà del Novecento; di fatto, Morandi visse gli eventi principali del secolo come uno straniero, dedito alla sua arte e mai coinvolto politicamente. Lo storico dell’arte tedesco Werner Haftmann descrisse così la camera di Morandi in via Fondazza, rifugio di una vita e luogo di estrema creatività:
Non ebbe mai un atelier nel senso pomposo del termine. Viveva e lavorava in una camera di media grandezza, una finestra della quale dava su un piccolo cortile ricoperto di verde […] Qui si trovava anche la sua brandina, un vecchio scrittoio e il tavolo da disegno, una specie di libreria, il cavalletto e poi tutt’intorno su stretti scaffali l’arsenale, in attesa discreta, delle semplici cose che noi tutti conosciamo attraverso le sue nature morte: bottiglie, recipienti, vasi, brocche, utensili da cucina, scatole. Le aveva scovate chissà dove, per lo più da rigattieri, si era innamorato di ciascuna di esse, le aveva portate a casa una ad una, per poi disporre in fila questi trovatelli quali suoi compagni di stanza, in via sperimentale e con grandi speranze. Qui si trovavano dunque i suoi modelli veri e propri: le «cose» nel loro isolamento silenzioso, gli interlocutori del suo incessante dialogo.
Negli ultimi anni del suo percorso accademico, Morandi avviò la sperimentazione di un nuovo stile che coniugava classicismo e modernità. Anche se rimase per tutta la vita a Bologna, l’artista aveva ben chiare fin da subito le sue fonti di ispirazione: «pochi grandi antichi, pochi grandi moderni», come scrisse Francesco Arcangeli. A tal proposito, sel 1910 incontrò a Venezia Renoir e Cézanne, a Firenze perfezionò lo studio di Giotto, Masaccio e Paolo Uccello. Nel 1918 aderì alla corrente metafisica, divenendone uno dei massimi esponenti (insieme a De Chirico e Carrà); poi, due anni più tardi, fu tra i classicisti del gruppo «Valori Plastici».
Si trattò tuttavia di semplici parentesi, perché durante gli anni Venti Morandi elaborava un linguaggio personalissimo, individuabile principalmente per il genere della natura morta; i contorni degli oggetti, non più così netti, subiscono come una liquefazione, e una luce interna al quadro evidenzia questo straordinario fenomeno.
Dal 1930 al 1956 l’artista ricoprì la cattedra di Incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna: spesso, nel tragitto da casa sua all’università, sostava nella chiesa di Santa Maria dei Servi (situata in Strada Maggiore) per ammirare La Maestà di Cimabue.
Sebbene Morandi fu il più grande incisore del Novecento (stimatore di Rembrandt, del quale possedeva due incisioni), la sua fama oggi è principalmente legata alle nature morte, in particolare alle bottiglie di vetro, concepite come eterne e immobili architetture.
Il regista Ferzan Özpetek, appassionato della sua arte, ha scritto in occasione di una mostra monografica allestita al Vittoriano nel 2015 che
L’immagine pittorica di Morandi propone degli elementi che sono sotto i nostri occhi con una naturalezza quotidiana: penso alle sue nature morte, alle bottiglie, ai paesaggi. Ma la luce in cui sono immerse, l’interpretazione che l’occhio del pittore ne dà, li rendono assolutamente straordinari. Sono oggetti e luoghi che appartengono alla creazione personale di un artista, eppure non solo li riconosciamo, ma li comprendiamo con il cuore, come succede di fronte all’arte vera.
Nei dipinti di Morandi manca l’essere umano, non compaiono i volti delle persone. L’uomo lo metteva a disagio, così, fatta eccezione per i ritratti delle amate sorelle, preferiva non ritrarre le persone perché avrebbero messo l’artista in seria difficoltà. L’assenza dell’uomo non toglie respiro e energia alle sue opere: la scelta dei colori, la luce, il tipo di inquadratura danno ugualmente vita alle numerose nature “morte”. L’artista stesso decideva cosa mostrarci, focalizzava l’attenzione solo su elementi in grado di colpirci: i suoi soggetti, spesso allontanati dal contesto originario, hanno vita propria e, ancora oggi, conservano qualcosa da raccontarci. È ciò a cui ambiscono anche i cineasti (non a caso Morandi temeva l’ascesa del cinema in questo senso), che puntano a trasformare la noiosa quotidianità della vita in emozione che giunga alla nostra anima.