Lucio Gava
pubblicato 6 anni fa in Cinema e serie tv

Youth

la lezione di Sorrentino

Youth

Per una volta Sorrentino non mi fa pensare.

Se è facile elogiare il caviale, è allo stesso tempo semplice ammettere che non sia dei migliori, anzi, che abbia qualche generico difetto di presentazione o di conservazione che ne lede irrimediabilmente il gusto. La conseguenza di questo dubbio paralizzante si risolve in una domanda: “Come sarà catalogato Sorrentino fra vent’anni?

Classico, cult, sperimentale, visionario, o niente di tutto ciò. Come sarà visto fra vent’anni “Youth”?

Probabilmente non come uno dei suoi film più rappresentativi, a mio avviso. E nemmeno uno da dover a forza inserire in quelle liste dai nome evocativi come “I cinquanta film più belli dei primi anni Quaranta” oppure “Cento film italiani da salvare”.

In “Youth” si vuole raggiungere tutti e indistintamente, cercando di essere i più esemplificativi possibile. E allora si mescola un po’ di tutto e un po’ di più, scadendo nella sovrabbondanza di stimoli visivi. Per definire questa elitaria clinica Svizzera come il non plus ultra mondiale, c’era bisogno di inserire un Maradona feticcio che sì e no palleggia con una pallina da tennis, ricorda di essere mancino e di saper firmare autografi?

Se Sorrentino voleva parlare delle eccellenze in ogni campo, in quella della regia cinematografica e della recitazione, in quello della bellezza femminile e della popolarità musicale, in quello della spiritualità e della cura del corpo, c’era bisogno di prenotare ogni campo dello scibile umano per tentare di avanzare la propria ambiziosa tesi?

Il lusso mostrato in questo film non è volgare ma non rende la pellicola un capolavoro della fotografia e nemmeno della sceneggiatura. Si chiede Sorrentino: cosa c’è oltre, quindi prima e dopo, le più alte espressioni del talento umano, da quello sportivo a quello fisico, da quello artistico a quello religioso? Cosa permette all’uomo di non soffocare piegato dal proprio talento e disumanizzarsi a causa di questo?.

Il regista sembra spiegarci che la risposta si trova nel riuscire a convivere ed accettare la propria fine, perché questa in definitiva rappresenta il metro di giudizio di ogni nostra azione. L’arte migliore e il genio migliore sembrano non avere speranze non solo di fronte alla mediocrità livellante della vita, qui peraltro sempre lasciata intuire pure nelle scene di prostituzione e di bieco affarismo, ma anche di fronte alla noia estrema della stessa. Una noia sempre presente nei film di Sorrentino, vissuta dalle anime migliori che nelle possibilità concrete dell’esistenza scorgono le ennesime dolorose costrizioni, pure nelle apparentemente più piacevoli. Solo accettando il proprio destino di morte si può sopravvivere alla vita. Solamente chi non ha saputo accettare la propria fine arriva al suicidio.

Ennesima rimpatriata di grandi attori, da Michael Caine a Rachel Weisz, da Haervey Keitel a Paul Dano, quindi Jane Fonda che interpreta una diva avanti con gli anni di cui si dice: “Quando sai rubare, non ti serve una cultura. Il furto è la tua formazione”.

Il merito di “Youth” è di non aver preteso troppo da nessuno, nemmeno da se stesso. Sorrentino trionfa a mani basse uscendo indenne ma senza encomi da una degustazione del Tempo. Solo osando si può sperare di sopravvivervi e questa volta Paolo ha confuso quantità di persone qualitative, con qualità di persone quantitative.

Il sesso è rappresentato come una deriva animalesca dell’amore destinato al fallimento, sostituito dall’amicizia. L’arte sembrerebbe sopravvive ad ogni cosa, persino a se stessa. Siamo certi che “Youth” sopravvivrà pure a questa critica, ma la sua forma ibrida dal contenuto a tratti metafisico uscirà indenne dal Tempo, Critico per eccellenza? Riuscirà “La giovinezza” a vincere l’inappellabile Sua sentenza?
La dedica a Francesco Rosi, uno che di giovinezza artistica se ne intende, sembrerebbe di buon auspicio.

 

 

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