La pelle: Curzio Malaparte e Liliana Cavani
Il romanzo di Curzio Malaparte, pubblicato nel 1949, doveva intitolarsi La peste, ma due anni prima in Francia era uscito con lo stesso titolo il celebre romanzo di Albert Camus e quindi lo scrittore ripiegò su La pelle. Un libro criticato e censurato che ha dovuto sopportare la rabbia di molti italiani che si sentivano traditi dalle vicende narrate.
La guerra è finita da pochi anni e l’Italia è salita sul carro dei vincitori, ma i crudi e drammatici racconti del romanzo non parlano di vincitori, perché non esistono, ma soprattutto di umili vinti. Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell’ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che non colpisce solo il corpo ma l’anima, così da spingere uomini e donne a vendersi, distruggere la propria dignità e rispetto di sé. Trasformata in un inferno di degrado e depravazione, la città offre una panoramica oscena e di straziante orrore:
la peste è tra le mani pietose e fraterne dei liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita, nella loro convinzione che un popolo vinto non possa essere un popolo di colpevoli. Null’altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o l’onore, la libertà, la giustizia, ma la schifosa pelle.
Curzio Malaparte è anche il nome del protagonista del romanzo, che si fa testimone lucido e implacabile. Pagina dopo pagina, metafora dopo metafora, ogni vicenda diventa una minuziosa cronaca che cerca di spiegare in modo schietto cosa ha dovuto subire il popolo di Napoli durante l’arrivo, e la convivenza, dei soldati americani. Se la peste è quella malattia morale che divampa tra le strade, la pelle è quella che si vende, si compra, si protegge e per cui si combatte.
Il vento nero cominciò a soffiare verso l’alba, e io mi destai, madido di sudore. Avevo riconosciuto nel sonno la sua voce triste, la sua voce nera. M’affacciai alla finestra, cercai sui muri, sui tetti, sul lastrico della strada, nelle foglie degli alberi, nel cielo su Posillipo, i segni della sua presenza. Come uomo cieco, che cammina a tentoni, accarezzando l’aria e sfiorando gli oggetti con le mani protese, così fa il vento nero: che è cieco, e non vede dove va, e ora tocca quel muro, ora quel ramo, ora quel viso umano, e ora la riva ora il monte, lasciando nell’aria e sulle cose la nera impronta della sua lieve carezza.
Malaparte descrive odori e suoni con un’accuratezza tale da far perdere quasi le tracce, il filo della narrazione, al lettore. Il protagonista, insieme a coloro che lo accompagnano, attraversa le strade e le piazze di Napoli come attento scrutatore della realtà ma con l’ombra della finzione narrativa tra povertà, trasgressione, orgoglio e generosità, restituendo una scrittura arzigogolata ma diretta che tocca immediatamente le corde morali ed emotive.
«Non ha alcuna importanza» disse Jack «se quel che Malaparte racconta è vero, o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel ch’egli fa è arte, o no».
La pelle è un pezzo fondamentale della letteratura italiana, unisce la cronaca storica alla scrittura letteraria attraverso un linguaggio ancora attuale ma soprattutto lucido; un’opera da leggere, e rileggere, assimilandone il lessico, la costruzione narrativa e lo stile.
Il film di Liliana Cavani del 1981 è liberamente ispirato al libro di Malaparte e fa propri solo alcuni degli aspetti messi in evidenza dallo scrittore. La regista trasporta lo spettatore in una Napoli dilaniata dalla seconda guerra mondiale, pronta a tutto pur di riconquistare quella tanto agognata libertà e di guadagnare profitti da un conflitto che nel tempo le ha portato via tutto.
Gli episodi che Cavani sceglie di raccontare sono probabilmente i più cruenti del romanzo, ma le modalità di narrazione sono completamente diverse. La regista fa propri i racconti di Malaparte e sottrae la potenza descrittiva della parola, aggiungendo ed amplificando l’elemento grottesco. In una città che è riuscita con le proprie forze a scacciare il nemico, il tempo sembra trascorrere in modalità differenti, le persone hanno imparato a vivere attraverso delle regole non scritte ed ormai evidentemente radicate.
Il guappo tiene a casa sua diversi prigionieri tedeschi e li vende a peso al miglior offerente; il padre di una vergine guadagna attraverso l’illibatezza della sua giovane figlia; i nobili si crogiolano nelle loro esistenze tediate, ormai disillusi e spenti. Sullo schermo l’elemento che fa da protagonista è sicuramente il corpo. Una proliferazione di immagini infatti mette in evidenza l’elemento corporale e lo pone al centro dell’intera vicenda. Gli uomini sono animali: questa la evidente verità che la regista è pronta a urlare per tutto il film. I maiali valgono di più delle prostitute, i soldati tedeschi vengono fatti ingozzare così da poter essere venduti a un peso maggiore. Solo la pelle, la carne, le ossa, rappresentano la moneta di scambio in una società che ha visto troppe morti e non si è arresa, quindi ha optato per l’adattamento naturale.
Le vicende narrate, nonostante siano particolarmente cruente e cariche di forza emotiva, vengono mostrate dalla regista quasi con una sottile ironia, che permea l’intero film. La recitazione degli attori è particolarmente enfatica e tutta la costruzione scenografica appare quasi atta a dissacrare il racconto originale. La musica sembra essere l’elemento scelto da Cavani per sottolineare la drammaticità della narrazione. Nella sequenza dedicata all’eruzione del Vesuvio è proprio attraverso l’elemento musicale che si insinuano delle sensazioni contrastanti nello spettatore. Mentre il guappo mangia serenamente i suoi spaghetti al pomodoro, perché si fida del vulcano e si rimette alla sua volontà come fosse un vero Dio, la principessa Caracciolo (Claudia Cardinale) passeggia serenamente nei vicoli di Napoli e raggiunge il suo amante, lasciandosi andare ad un amplesso che stride con la preoccupazione e il concitamento delle strade. Il soldato americano Jimmy va a pregare in chiesa con la vergine Maria Concetta e quando la notte termina porta via con sé anche l’eruzione, lasciando spazio al sole.
Il brano Jesce sole è emblematico in questa sequenza, il sole è uscito, la guerra è finita, il Vesuvio ha deciso di fermarsi, la speranza sta iniziando a farsi largo in quelle persone che, come dice il teso della canzone, hanno pregato tanto per vedere un raggio di quella luce. Il personaggio di Malaparte, interpretato da Marcello Mastroianni, rappresenta una sorta di guida per i militari americani, ma al contempo mostra anche allo spettatore una parte di un’Italia che continua a vivere in guerra, una guerra per vincere la fame. L’ultima sequenza, che mostra l’arrivo a Roma delle truppe USA, è quella più splatter del film, ma anche in questo caso la regista decide di mostrarla in una chiave sarcastica, inquadrando un Marcello Mastroianni contrito, che si lascia dietro i carrarmati del generale Clark (Burt Lancaster), e guarda interdetto il nuovo scenario che accompagnerà l’Italia negli anni a venire. Il corpo fa anche qui la sua comparsa, ma è un corpo martoriato, schiacciato dal peso della guerra, un corpo che è ormai solo l’involucro della disperazione.
Quando una pellicola cinematografica deve confrontarsi con una grande opera letteraria non è una cosa semplice riuscire a trasmettere con le immagini in movimento la stessa forza della parola scritta, soprattutto quella di Malaparte. La regista, Liliana Cavani, per non sopperire alla solennità dell’opera originale mette in scena, in modo quasi obbligato, una sorta di versione filmica più grottesca e dissacrante. La forza delle descrizioni dello scrittore non trova pienamente il suo spazio sulla scena, ma si fa largo attraverso altri espedienti cinematografici, lasciando sulle spalle, artisticamente larghe, di Marcello Mastroianni il peso della sceneggiatura.
di Maria Cagnazzo e Alessandro Foggetti