Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Tra immagini e parole

Un borghese piccolo piccolo

(Vincenzo Cerami, 1976 - Mario Monicelli, 1977)

Un borghese piccolo piccolo

La rubrica Tra immagini e parole prosegue attraverso l’analisi del romanzo di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo (1976), in relazione all’omonimo film di Mario Monicelli del 1977. Una storia breve, da poter raccontare a voce, ma che senza la forza descrittiva della parola scritta non avrebbe il supporto necessario. Giovanni Vivaldi è il protagonista della vicenda, un uomo anziano, prossimo alla pensione presso il Ministero, il cui unico desiderio, dopo una vita di sacrifici, è di vedere per il figlio Mario una realizzazione lavorativa. Il giovane è da poco divenuto ragioniere e si prepara ad un concorso indetto dallo stesso Ministero. Suo padre scenderà a qualunque compromesso per fare in modo che il ragazzo riesca a raggiungere i suoi obiettivi, arriverà anche ad aderire ai principi della massoneria per poter ottenere il favore di uomini più in alto di lui. Un triste destino però attenderà Mario la mattina della prima prova e quel che resterà a Giovanni sarà solo un pugno di tristezza, rabbia e solitudine, che lo porteranno ad una estrema decisione.

Cerami dà modo al lettore di entrare nel più profondo della vicenda, analizzando personaggi e luoghi con una sorta di ironia grottesca. Una società cambiata dal boom economico, che osserva ormai da lontano i tempi di guerra e guarda il futuro come sinonimo di quel posto fisso tanto agognato dallo stesso Giovanni per il suo Mario. L’autore riesce a provocare in chi legge una sorta di disgusto verso le abitudini di Giovanni e dei suoi colleghi, paragonati a dei piccoli scarafaggi che ogni mattina, con comodo, raggiungono il loro piano dell’ufficio ministeriale e si siedono dietro le scrivanie coperti da pile di pratiche da sbrigare. Giovanni vive in una sorta di perenne stato emulativo nei confronti del suo superiore Dottor Spaziani e si prostra davanti al capo nella speranza di ottenerne i favori. Un impiegato modello, che sente di aver superato i difficili periodi del passato, di aver lasciato la campagna per la città e di aver vissuto una vita tutto sommato dignitosa per donare al giovane Mario un futuro roseo. L’uomo ha dedicato la sua esistenza all’ascesa della scala sociale e quando starà per salire i gradini tanto agognati sarà costretto a fare i conti con un imprevisto feroce. La vicenda è raccontata in terza persona, da un narratore che però ha un’opinione e la rende chiara al lettore. Il punto di vista della storia è interno, solo di Giovanni conosciamo le impressioni e le percezioni. Chi legge vive delle sensazioni contrastanti, ma sicuramente il sentimento di cui le parole di Cerami sono impregnate è quello della compassione. Quando la vita di Vivaldi giunge ad una svolta definitiva e crudele, che lo porterà a trasformarsi da vittima a carnefice, l’unico modo che il lettore ha di avvicinarsi al suo animo è attraverso quella pietas, propria dei latini, che accompagna l’intero viaggio tortuoso del protagonista, pronto prima a raggiungere un obiettivo e poi a colmare la sconfitta con un secondo e più brutale proposito. La solitudine diviene amica di Giovanni, gli fa compagnia e lo guida verso una nuova vita, in cui l’onestà non ha pagato e quindi può essere lasciata indietro. L’annunciazione di una imminente dipartita si fa largo già nel prologo della narrazione: la prima immagine che l’autore ci regala è colma di un’aria mortifera, che non lascia il lettore indifferente. La vicenda comincia proprio con Giovanni e Mario intenti a pescare sulle rive del lago ed una volta catturato un pesce, il signor Vivaldi lo finisce usando una pietra con una violenza che permane nella memoria anche nel corso dei capitoli successivi. Una sorta di infesta premonizione di un futuro non troppo lontano. La società si è trasformata insieme a Giovanni, il tempo ha sbiadito i colori ed ha cambiato i mobili della casa sulla Tuscolana, la realtà cangiante ha mutato anche l’animo del protagonista. Il piccolo borghese Giovanni è costretto ad abbracciare una croce troppo pesante, ma una volta compiuta la sua vendetta può continuare a tenerla sulle spalle, aspettando solamente di divenire ancora più piccolo.

Il romanzo di Cerami si sposa benissimo con lo stile e l’idea cinematografica di Mario Monicelli, infatti nell’omonima pellicola, Un borghese piccolo piccolo (1977), il protagonista incarna alla perfezione la caratteristica monicelliana di “perdente” che cerca di raggiungere a tutti i costi un traguardo che con il passare delle vicende diviene quasi impossibile. La trama è la stessa del romanzo, Giovanni Vivaldi (interpretato da Alberto Sordi) impiegato ministeriale vicino alla pensione, vorrebbe che il diploma di ragioniere conquistato dal figlio Mario (Vincenzo Crocitti), gli spalancasse le porte del ministero in cui lavora. Tuttavia, il giorno del concorso Mario viene ucciso da un giovane rapinatore di banca sotto gli occhi del padre. Da quel tragico momento Giovanni Vivaldi diventerà uno spietato giustiziere. Un vendicatore senza pace e senza pietà che si accanirà contro l’assassino del figlio. Un eroe dei nostri tempi (1955), La grande guerra (1959) o Risate di gioia (1960) sono solo alcuni esempi di come il regista racconta filmicamente le vicende, ovvero un gruppo di personaggi, o un singolo, solitamente “incapaci” che tentano un’impresa più grande di loro che finisce sempre in un fallimento. Durante il susseguirsi delle vicende i momenti esilaranti e quelli drammatici si alternano restituendo una commedia variegata e riflessiva. E in Un borghese piccolo piccolo queste vicende vengono accompagnate da una critica, cinica e spietata, riguardo la politica e la società italiana del periodo. Come il libro, la pellicola sembra essere divisa in metà dalla sconvolgente morte di Mario Vivaldi; Monicelli sottolinea minuziosamente – e ironicamente tramite la perfetta maschera di Alberto Sordi – i dettagli che costituiscono i vizi della società italiana, e della definitiva consacrazione del boom economico, utilizzando come espediente una famiglia piccolo (piccolo) borghese. La guida spericolata per le strade, e nel traffico, di Roma con la difficile ricerca di un parcheggio; la partita di calcio in televisione con un classico derby Roma-Lazio; i dettagli della scenografia domestica che rimandano a prodotti industriali, con tanto di marchio; la goliardica rappresentazione del pubblico impiego con scrivanie piene di scartoffie e il protagonista sempre con giornale in mano senza dimenticare la colazione servita e ovviamente, per concludere, la celebre “raccomandazione”. Se in questa prima parte le vicende vestono i panni della commedia e dell’ironia dopo la morte di Mario diventano, di colpo, drammatiche. La moglie Amalia (Shelley Winters) è colpita da un malore ed è costretta su una sedia a rotelle e sulle spalle di Giovani ricadono tutte le responsabilità di una famiglia distrutta. Il protagonista diventa una sorta di giustiziere, cambia i suoi atteggiamenti e acquisisce una saggezza e una visione della vita pragmatica, ribaltando completamente la sua persona e il suo modo, tranquillo, di vivere. Di conseguenza anche il racconto filmico prende dei toni drammatici, oscuri, e le vicende perdono la loro iniziale ironia palesando un lato registico di Monicelli difficile da trovare nella sua passata filmografia. Una pellicola politica, ironica, cinica, drammatica e realista perfettamente coerente e in linea con il romanzo di Vincenzo Cerami.

Le differenze tra il romanzo e il film non sono molte, Monicelli segue sufficientemente l’opera letteraria, senza troppi stravolgimenti. Infatti, il regista compie solo due scelte sostanziali che differenziano le due opere. In primo luogo, decide di donare maggiore rilevanza alla figura della moglie Amalia, che sarà l’unica a non avere fiducia in quelle istituzioni in cui Giovanni crede tanto e a lei solo sarà concesso di assistere alla morte dell’assassino di suo figlio. In secondo luogo, invece, nell’opera scritta l’attenzione è ripetuta e focalizzata sull’ansia del protagonista per aver ucciso il carnefice di suo figlio – come il dover sotterrare due volte il corpo e il continuo pensiero a quello che stava succedendo – nella pellicola invece è meno sottolineata, molto probabilmente, anche per la diversa conclusione: nel libro Giovanni Vivaldi è rassegnato a dover vivere da solo, dopo aver perso il figlio e la moglie, nella solita routine da neo pensionato; nel film invece sembra diventare un giustiziere a sangue freddo.

di Maria Cagnazzo e Alessandro Foggetti