In direzione ostinata e contraria
"Grigio è il colore della speranza" di Irina Ratušinskaja
E io ho imparato, ho imparato, ho imparato ad essere paziente. Non mi mancava il tempo a disposizione: coloro che avevano stabilito i termini del mio periodo di istruzione erano stati generosi.
Quella raccontata da Irina Ratušinskaja ne Grigio è il colore della speranza (Seryj ̶ cvet nadeždy, tradotto per Rizzoli da Luciana Montagnani nel 1989) è una storia di resistenza. Una storia di come, a volte, anche il buio può diventare luce.
Poeta di origini ucraine, dopo un processo farlocco nel 1983 durante il quale viene privata sia del diritto di difesa che dell’ultima parola, Ratušinskaja è condannata a sette anni di lager a regime duro e cinque di confino. La sua colpa? Scrivere versi.
Come sarebbe, per i versi? Erano contro il governo?.
Indipendentemente dal governo, perciò si sono offesi.
L’incontenibile forza della parola, ecco di cosa ha paura il Kgb. Una parola che deve lodare il potere sovietico o a cui, altrimenti, viene sottratto il fiato.
È, questa, una testimonianza preziosa. Un libro di memorie che racconta tre anni di violenza fisica e psicologica, di torture e supplizi ma anche di come l’animo umano quanto più viene vessato tanto più si fortifica. Ed è proprio quella stessa forza che, una volta tornata in libertà, scaccia con furore i tentennamenti, in quella strenua lotta contro il legittimo diritto all’oblio:
Anche adesso, più di sei mesi dopo, nel momento in cui mi accingo a scrivere questo libro, una voce geme in un angolino della mia anima: lascia perdere, non ricordare, ne hai avuto abbastanza! Ma io voglio ricordare. So che devo.
Ratušinskaja sconta la sua detenzione in un lager della Mordovia, nella Piccola Zona in cui sono recluse altre prigioniere politiche come lei. Sono diverse le donne che si avvicendano nella baracca ma le sue principali compagne di prigionia sono Tanja Osipova, Raja Rudenko, Nataša Lazareva, Tat’jana Velikanova. pani Jadviga e, infine, un ospite speciale: la gatta Njurka.
Le donne sono mosse da un’ostinata disperazione che permette loro di combattere affinché non venga calpestata la dignità umana. Private degli affetti, minacciate, ricattate per un pezzo di pane in più e spinte a mettersi l’una contro l’altra tramite la menzogna, non cedono. Non si spezzano.
Anche se stipate in un’unica baracca, anche se vestite di stracci, anche se costrette a subire perquisizioni e incursioni – noi siamo esseri umani. Non ci costringeranno a metterci carponi. Non è nostra consuetudine soddisfare le umilianti, insensate pretese dell’amministrazione, perché noi non rinunciamo alla nostra libertà. Sì, viviamo dietro il filo spinato, ci hanno tolto tutto quello che volevano, ci hanno separate da amici e famigliari, ma finché non siamo complici anche noi di tutto questo – siamo libere.
Se una compagna malata viene mandata nello Šizo – il carcere di isolamento – loro indicono uno sciopero della fame. Uno sciopero della fame per chi è ben nutrito è sopportabile, ma per chi come loro versa in condizioni di profonda denutrizione, privarsi del cibo anche solo per qualche giorno, equivale a un sacrificio estremo. Anche il ritorno ai soliti pasti diventa problematico perché uno stomaco provato dal digiuno non tollera che qualche bicchiere d’acqua. Sono molte le volte in cui vengono costrette all’alimentazione forzata. Le ammanettano, aprono loro la bocca con un ferro e ci ficcano un tubo nel quale si versano due litri di un qualche liquido. L’intento degli aguzzini non è di certo salvare la vita alle scioperanti bensì prolungare il supplizio per il maggior tempo possibile. Non tutte riescono a portare a termine lo sciopero ma le altre non ne fanno loro una colpa. La comprensione della comune sventura e il rispetto reciproco sono infatti alla base del legame che queste donne hanno costruito nella loro Piccola Zona. Sostenere l’altro sospendendo le piccole meschinità quotidiane che all’interno del lager non possono che estremizzare i sentimenti di odio e rivalsa:
Quando una persona non ha più forza – allora sostienila tu, se quella forza a te non manca. E probabilmente si fortificherà. Se poi non ce la fa davvero più – abbandonerà onestamente la lotta e ti aiuterà nei limiti delle sue possibilità. Ognuno porta il fardello che riesce a sollevare, e chiunque non stia dalla parte degli aguzzini è tuo fratello.
Non sempre però si può aiutare chi invoca aiuto. Giunge infatti la voce che una detenuta si sia recisa le vene con i denti. Lei, a differenza delle politiche, non ha nessuno che combatta per la sua liberazione e cerchi di fare pressione sulla stampa estera per denunciare i crimini perpetuati dallo Stato sovietico sui propri cittadini, si trasformerà in un’altra delle tante morti rimaste silenziose e inosservate di cui nessuno sarà ritenuto responsabile. I medici conniventi non avranno paura nel redigere una diagnosi convincente che faccia passare l’avvenimento come una morte “in regola”. La sua vita rimarrà solo nella memoria di quel pavimento macchiato di sangue che gli inservienti si sono affrettati a lavare
e in Mordovia verrà scavata un’altra anonima tomba numerata, e una neve grigia cadrà da un cielo grigio a ricoprirla. Poi, tra un paio d’anni, un bulldozer la spianerà, per fare spazio a quelle che verranno.
Nello spazio eterotopico del lager, dove il tempo è scandito solo dall’orario dei pasti, le detenute cercano di ricreare la normalità della vita libera: a Capodanno prendono della polvere dentifricia, la impastano con dell’acqua e disegnano un albero di Natale sul nero rivestimento metallico della stufa.
Ratušinskaja condanna inoltre l’indifferenza dei membri dell’Unione degli Scrittori Sovietici che, dall’alto delle loro torri d’avorio, si tengono alla larga dalla lotta per la liberazione di intellettuali come lei. Quando si ha molto da perdere, il coraggio viene meno. D’altronde, non avendo mai preso parte a qualsivoglia attività di propaganda obbligatoria per i componenti dell’Unione, Ratušinskaja non può essere considerata una loro collega. Chi si batte affinché la sua prigionia abbia termine sono, tra gli altri, il marito Igor’ e Elena Sannikova, una attivista imprigionata anche a causa della sua lotta a favore della scrittrice:
Dopo essere stata liberata, le parlai per telefono. Avevo il cuore straziato: ecco, io sono a casa – soltanto perché tutti insieme sono riusciti a tirarmi fuori, e lei è al confino – perché è stata una di quelli che cercavano di tirarmi fuori.
Gettate nel tritacarne sovietico, il cui unico scopo è spezzarle, la loro arma di sopravvivenza non è che una: resistere. Resistere cercando di mantenere intatto lo status di esseri umani senza quindi scivolare nell’odio nei confronti dei propri aguzzini altrimenti sarà proprio quel sentimento che corroderà e annienterà la loro anima.
In balìa della sorvegliante Podust, paragonata a Ilse Koch, la “strega” del campo di concentramento nazista di Buchenwald, per via del sadico piacere che ricava dalla sottomissione delle prigioniere, in quel vortice di vessazioni a scopo “rieducativo”, in quell’oliato ingranaggio di menzogna e violenza l’unica cosa che rimane da fare è aggrapparsi all’anima con i denti.
Talvolta premo contro la guancia questa tela del lager, che ne ha viste così tante: il mio grigio, il mio colore grigio! Il colore della speranza! Per quanto tempo ancora dovranno esistere questi lager sulla mia terra? Come potrò oggi addormentarmi mentre ancora continuano ad esistere? Ma era la nostra zona che aveva l’uniforme grigia. La maggioranza dei prigionieri ce l’ha nera. In che cosa possono sperare loro? Forse – soltanto in tutti noi.