Ai miei maestri immensi
"I libri della mia vita" di Varlam Šalamov
I libri sono esseri vivi. Possono deluderci o appassionarci. Nella vita di ogni persona di cultura esiste sempre un libro che ha avuto una grande importanza nel suo destino. Molto spesso non è affatto il romanzo di un genio, ma un libro mediocre di un autore poco noto.
Quando qualche settimana fa è uscito per Adelphi Come ordinare una biblioteca di Roberto Calasso mi sono ricordata di un libricino che campeggiava nella mia di biblioteca da diverso tempo ma che non avevo ancora letto: I libri della mia vita di Varlam Šalamov (Sliškom knižnoe, edito da Ibis nel 1994 a cura di Anastasia Pasquinelli). Il perché mi sia tornato in mente questo titolo è presto detto:
All’età di tre anni – epoca a cui risalgono i miei primi ricordi – ho posseduto la prima e ultima biblioteca della mia vita… Era formata da due libri: Aj, du, du! E il Sillabario di Tolstoj.
Šalamov, uno dei più importanti esponenti della lagernaja literatura che molti di noi conoscono per la sua testimonianza dell’inferno dei campi di lavoro siberiani vividamente descritta in quelle pagine di assordante violenza che sono I racconti della Kolyma, una biblioteca da ordinare non l’ha mai propriamente avuta. Uno scrittore che non possiede dei libri. Strano, vero? In realtà, se guardiamo da vicino la sua vicenda biografica, tutto questo non dovrebbe stupirci più di tanto. Per uno come lui che ha passato venti anni nei più duri lager staliniani dove il giorno lavorativo durava sedici ore, il tempo e la forza per leggere non erano di certo una priorità.
I libri della mia vita è il racconto della genesi e dell’evoluzione non soltanto del rapporto di un lettore con gli infiniti mondi della letteratura ma anche dell’esperienza della lettura come atto pratico. Questo rapporto, fatto di intermittenze e disillusi addii, coincide inevitabilmente con le numerose rinascite che lo Šalamov uomo e, di conseguenza, lo Šalamov lettore, vivono.
Durante i primi anni di scuola, il pozzo da cui attingere a piene mani, è per Šalamov la Prima biblioteca operaia presso la quale può immergersi nella lettura dei libri requisiti nelle tenute dei proprietari terrieri. Libri con rilegature dorate e coperti di brina. Ed è proprio fra quegli scaffali curvati dal peso dei volumi che conosce Alexandre Dumas, Fenimore e Cooper.
Iniziano poi i lunghi anni di detenzione in Siberia e l’interesse nei confronti della lettura scompare. Le poche energie e l’attenzione che gli rimangono devono essere concentrate su altro: interrogatori, istruttorie, il nuovo ritmo di non-vita in quell’ambiente in cui anche una parola detta senza ragionarci troppo può essere fatale. Il lavoro annichilente in miniera lo logora e lo scrittore non ha voglia di pensare al domani, non ha bisogno di ammazzare il tempo, è il tempo che pensa ad ammazzare lui. Ed è così che Šalamov si dimentica dei libri.
Per i libri non c’era posto nei nostri pensieri, nel nostro lessico, una ventina di parole in tutto: ‘alzarsi’, ‘lavoro’, ‘pranzo’, ‘piccone’, ‘badile’, ‘scorta’, ‘caposquadra’, ‘sorvegliante’, etc. La parola ‘libro’ ci sembrava sconosciuta, forse addirittura inesistente.
L’incontro, dopo cinque anni, con un libro rappresenta per Šalamov una sconfitta. Lui, che un tempo era in grado di leggere in un solo colpo d’occhio dalle quindici alle diciassette righe di una pagina stampata, ora si rende conto di aver perso la capacità di leggere. Le lettere, le parole, i suoni si trasformano in muti fantasmi, entità evanescenti che cerca di afferrare ma che sfuggono all’impressione della mente:
I libri avevano smesso di essermi amici.
Qualche mese dopo, ha la possibilità di leggere di nuovo: vede infatti certi detenuti intenti a ricavare delle carte da gioco da una edizione di Notre-Dame de Paris. Sbirciando una di quelle carte riesce persino a leggere della tragica fine di Claude Frollo «Ma chi fosse Claude Frollo, questo non mi tornò in mente».
Trascorrono gli anni e Šalamov ripiomba nel buio vertiginoso della tabula rasa nella sua testa. È ormai affamato e malato e crede di non avere più la possibilità di tornare a leggere. Ma è proprio quando la sua speranza vacilla febbrilmente che il destino lo riporta sul sentiero dei libri. La primaria dell’ospedale nel quale è ricoverato proroga le sue dimissioni e gli porta un testo, La giovinezza del re Enrico IV di Heinrich Mann, e il miracolo accade. Il rassegnato lettore ritrova tutta la passione della lettura e riscopre il piacere dell’immergersi nelle pagine di quei mondi che credeva ormai perduti: «I libri sono ritornati da me».
Comincia poi a lavorare come assistente di un medico al pronto soccorso di un grande ospedale e, con i primi risparmi, si può permettere di acquistare qualche volume. La biblioteca dell’ospedale si rivela essere poi quel fiume presso cui lo scrittore può finalmente placare la propria sete. Una febbre lo assale: legge di notte, senza mai stancarsi, in una pantagruelica spinta a conoscere e a recuperare il tempo perduto lontano dai compagni di sempre.
Una volta scaduto il termine della sua detenzione, si reca in una regione sperduta per lavorare. Lì trova una biblioteca circolante rimpinzata di vecchi volumi usurati e del tutto illeggibili, tutti tranne uno: Colei che corre sulle onde di Aleksandr Grin. Il libro è l’unico mondo che non lo tradisce ed è anche l’unico amuleto che porta con sé nel viaggio di tredicimila chilometri in cui lascia la Kolyma.
I libri dunque costituiscono per lui un meccanismo di difesa dalla realtà ma sono anche uno strumento che gli permette di non affondare in quella stessa realtà. Il pellegrinaggio di Šalamov è il racconto della riconquista della propria libertà personale e intellettuale che il lager voleva annientare. È, questo, un monumento al potere della parola e all’eredità salvifica della letteratura che mi ha ricordato quanto, a volte, i libri possano essere il nostro unico stabile appiglio.
I libri sono quel che di meglio abbiamo nella vita, sono la nostra immortalità.
Mi dispiace di non aver mai avuto una biblioteca mia.