Roberta Landre
pubblicato 4 anni fa in Gli animali che amiamo

Quando il dolore animale diventa spettacolo

una prospettiva a partire da Sàndor Márai

Quando il dolore animale diventa spettacolo

Parlare del dolore è parlare di un’intimità inenarrabile, il dolore – proprio o altrui – è per definizione un qualcosa di soggettivo che si rifiuta di esser trasmesso radicalmente e può solo essere raccontato per approssimazioni, per allegorie e metafore. Non avendo un accesso diretto all’esperienza di altri, ma solo la capacità di immedesimarsi o raffigurarsi entro situazioni più o meno dolorose, l’uomo ha trovato nel racconto (letterario, artistico, cinematografico etc.) uno dei mezzi più efficaci per narrare i propri patimenti e gli altrui; così, sulla scorta di questa tecnica, ho deciso di parlare della spettacolarizzazione del dolore animale partendo da Il macellaio di Sàndor Márai, edito nel 1924 a Vienna (rilanciato l’anno scorso da Adelphi).

Il romanzo segue le abiezioni di Otto tra macelli e trincee, tra pulsioni e onorificenze, durante tutto l’arco della sua vita, dalla nascita fino al suo triste epilogo; ma non scriverò la trama e le avventure del protagonista e per introdurre la riflessione sul tema di questo articolo mi concentrerò piuttosto sulle circostanze del suo concepimento.

Le prime pagine del racconto si aprono con un miracolo: la nascita di Otto, da madre sterile; un concepimento che, come ci dice l’autore, trova spiegazione nell’arrivo del circo in città. In una comunità sopita, poco distante da Berlino e di certo non adusa dalla figura del Kaiser, l’avvento dei circensi smuove gli animi e porta tutta la popolazione al cospetto di quattro magnifici orsi polari, animali che nessuno di loro aveva potuto prima di allora ammirare di persona.

La descrizione dello spettacolo è molto importante e ci permetterà di avvicinarci al tema di questa riflessione.

Prima di tutto ci sono i protagonisti: Miss Bellini e i suoi orsi ammaestrati, senza catene; animali enormi, che richiamano la caccia e la mostruosità con cui li abbiamo sempre descritti; sono esotici, trasportati in un contesto antropico e chiassoso al cospetto di una dama circense molto femminile e decisamente più gracile degli animali in questione.

Poi c’è un luogo: il circo. Non un luogo qualsiasi ma uno spazio e un tempo che si sanno, e soprattutto si vogliono, carichi di attesa e significati. Un’arena dove si giocano le identità di tutti i presenti secondo una metafisica accettata e consolidata e dove ogni mezzo è lecito pur di consolidare i ruoli sociali.

Dopo di che il rito: il mezzo attraverso il quale si raggiunge il fine dello spettacolo. Una coreografia che deve dimostrare nella pratica ciò che tutti i partecipanti sanno e accettano, ossia che l’uomo non è un animale tra gli animali, ma un essere speciale ormai al sicuro dalla morsa della natura e al riparo dalla vulnerabilità.

E infine, il colpo di scena: il riuscito dominio sull’animale; dominio corporeo, psicologico e metafisico che, anche quando non riesce a imporsi sulla soggettività animale tutta, trova il modo di piegarla a sé preferendo un cadavere a una sconfitta.

La pista recintata da divisori metallici dove, tra percosse e luci abbaglianti, i quattro esemplari irrompono nel racconto è uno strumento di distanziamento nel quale, mentre la platea si divide tra chi mormora di eccitazione e chi si stringe i bambini sulle ginocchia, la domatrice, con largo uso di sbarre di ferro, fatica a domare le bestie.

Il ricorso della violenza è molto diffuso negli spettacoli con animali, sia per ripristinare il dominio sui sottoposti che per incrementare l’eccitazione della folla; nel racconto, e spesso anche nella realtà, nessuno sembra inorridirsi né impietosirsi per le sorti degli esemplari, non si sentono – per quanto descrive Màrai – voci fuori dal coro che accusino Bellini di crudeltà, anzi, la trepidazione per la sottomissione degli orsi fa battere i cuori.

Questo ci lascia intuire che per i cittadini l’utilizzo delle percosse contro gli animali, o almeno verso questi orsi in questo circo, è una cosa normale, accettata e appassionante. L’unico in grado di cogliere la sofferenza animale, tra tutti, è lo stesso autore che ne descrive il nervosismo.

Ma il maltrattamento della donna raggiunge presto la sottomissione degli individui più giovani: mentre questi bevono del latte, offerto dalla domatrice come ricompensa per l’esecuzione di semplici esercizi, dall’altro lato gli esemplari adulti perseverano a rincorrersi tra morsi e zampate. Il pubblico, così diviso tra le due scene, si focalizza nel seguire la lotta nevrotica e avvincente degli orsi maturi che si inseguono forniti di unghie e zanne, prediligendo la visione della manifestazione della natura. Donne strillanti avvinghiate ai consorti e mariti tanto tesi quanto curiosi, rappresentano il quadro perfetto di un’appassionata frenesia di massa.

La preferenza di uno spettacolo più “naturale”, come quello degli orsi anziani, una scelta quanto mai drammaticamente scontata, ci può dire molto su come vengono percepiti questi fenomeni: una ricerca dell’ignoto, dell’essenza primitiva dell’animale. Un essere senziente privato di ogni specificità e soggettività, ridotto a un cliché istintuale che affascina proprio per la sua “naturalezza” priva di arbitrio. Quello che coinvolge è la capacità dello spettacolo di rappresentare e reiterare la normatività che il pubblico accetta; l’esibizione circense sottolinea la supremazia umana sull’animale, rassicura l’uomo della sua distanza da quella natura selvaggia che tale alterità rappresenta, lo sprona a dominare, ma soprattutto gli permette di dimenticare la propria vulnerabilità corporea: seduti comodamente o in piedi trepidanti, gli spettatori sono ormai militanti che hanno scelto come rapportarsi all’altro.

A questo punto la musica popolare dell’orchestra si ferma e Miss Bellini annuncia il gran finale del combattimento corpo a corpo tra lei e un’orsa. Non sappiamo niente di questi orsi, non ci vengono presentati né descritti, se non nelle caratteristiche che il pubblico – presumibilmente – può trovare salienti in un animale posto all’interno di un circo: sono enormi, feroci, con zanne forti come l’acciaio, hanno grosse zampe e sono nervosi, e goffi, nei loro movimenti ciondolanti.

Ma ora una di loro emerge dall’indifferenziato e acquisisce un nome: “Tomy farà la brava” dice la domatrice alla protagonista del numero di chiusura. La Bellini si rivolge all’orsa come si parla a una conoscente, interpellandola, usando un linguaggio e dei movimenti che – si può ragionevolmente pensare – hanno già funzionato in precedenza.

L’entrata della soggettività animale, e in qualche modo il suo riconoscimento strumentale e precario, è accompagnata dall’agitazione del pubblico che assiste ai tentativi infruttuosi della donna di domare Tomy con le buone.

Tomy scappa, riprende a correre nervosamente per l’arena.

È interessante questo accenno alla ribellione animale; qui Márai non dimentica che ogni individuo cerca sempre di farsi riconoscere come soggetto nonostante la reificazione che, i suoi carcerieri e i partigiani del pubblico, costantemente mettono in atto.

Quindi Tomy corre e, nuovamente, Miss Bellini tenta di ammansirla rincorrendola. “E ora acchiappala!” gridano dalle sedie tra le risa: la domatrice riprende la sbarra metallica e nuovamente colpisce Tomy, che ruggisce di dolore.

In quell’esclamazione ridereccia c’è tutta la foga dello spettacolo, nella spettacolarizzazione il fine giustifica i mezzi: bisogna scioccare, travolgere emotivamente, senza remore né incertezze, bisogna farlo subito e a qualsiasi costo. Non si può tornare indietro e percepire Tomy: ormai si è nel pieno della significazione, è qui che il pubblico si coinvolge e si sente al sicuro, lontano dalla sua natura animale.

Adesso, le due femmine si mettono l’una di fronte all’altra, dando il via alla coreografia di chiusura, un numero preparato, già fatto altre volte: Miss Bellini con le mani sulle spalle di Tomy; Tomy con le zampe cinte sulla vita di Miss Bellini; Miss Bellini che, al suono di una frusta, mette la sua testa dentro la bocca di Tomy; Tomy che- a scapito del copione- chiude le fauci.

Nessun suono, nessuna reazione immediata.

Il cadavere della donna rimane a penzoloni nella la bocca di Tomy.

Ancora una volta la soggettività animale, ma dovremmo dire piuttosto la soggettività di Tomy, manda in frantumi il progetto umano dimostrandosi imprevedibile a scapito di tutti i calcoli fatti per negarla.

Una scena che Màrai sviluppa in poche righe, probabilmente per ricalcare la rapidità degli svolgimenti, ma non tanto in fretta da non poterla descrivere come orrore.

E mentre tutto sembra far crollare l’orgoglio umano, il direttore ripristina il mancato colpo di scena: si sente il rumore di una detonazione, il coro di urla terrorizzate e si vede l’uomo che, armato di frusta e revolver, e accompagnato da garzoni con torce di fuoco, apre le transenne e si si reca da Tomy.

L’orsa giaceva a terra, contorcendosi negli spasmi della morte e stringendo ancora il corpo fra i denti. Tutto intorno la segatura era ormai tinta di rosso.

Tomy cessa di essere Tomy per tornare ad essere un animale qualsiasi non appena Miss Bellini non riesce ad addomesticarla, non la si chiama più per nome, addirittura la sua morte viene taciuta: se per la donna abbiamo una causa descritta – l’orsa che chiude le fauci – ora il motivo del suo decesso è lasciato a intendere, non del tutto taciuto, ma nemmeno descritto. La morte di Miss Bellini è definita orrore, quella di Tomy è muta: nemmeno la morte ha un pieno riconoscimento quando il soggetto non può più dirsi tale.

Solo a questo punto la folla si spintona verso l’uscita in preda al panico tra urla e spintoni; tutti eccetto il padre di Otto, ancora eccitato sulla sua seduta e la sterile moglie ormai priva di sensi: «Quella notte fu concepito Otto».

La vita di Otto segue da queste premesse: laddove il rimedio alla sterilità della madre è dato dal susseguirsi degli omicidi sotto il tendone del circo –all’interno del quale si combatte una guerra millenaria tra umano e animale – il resto del romanzo, bellissimo, ricalca lo stesso copione fino alla fine.

Quello che è importante notare è che al di là della supposta metafisica delle essenze, è il corpo – materialisticamente parlando – ciò che si manifesta nello spettacolo; è quello il fenomeno dove ogni visione del mondo si crea e si reitera. Il corpo, inteso come privato e tuttavia inevitabilmente in balia del commercio pubblico, assume i connotati di un medium relazionale tra il soggetto e l’alterità, tra il dentro e il fuori, medium che tuttavia è il soggetto stesso.

Il dolore del corpo, e quindi dell’individuo non umano – ancorati alla tradizione cartesiana degli animali come automi – spesso non riusciamo a riconoscerlo; se ci trovassimo in un circo come quello di Márai probabilmente tenderemmo ad assumere l’animale come oggetto anziché come soggetto, a concentrarci sulle nostre esperienze piuttosto che sulle sue, dimenticandoci che il diritto all’intrattenimento è ben altra cosa rispetto alla violenza. Ci dimenticheremmo della natura relazionale del corpo, del suo essere un collegamento tra gli individui e ambiente, in virtù di una prospettiva dicotomica che riduce gli animali non umani a mere cose senza sensibilità, o al massimo a esseri senzienti i cui interessi non sono importanti quanto i nostri; ma si possono utilizzare dei soggetti come fossero meno che senzienti solo a patto che questi vengano reificati, cioè fin tanto che permane un discorso culturale che – facendo leva sui concetti biologici e sulle dicotomie uomo/natura, razionalità/istinto, noi/loro – ci impedisce il riconoscimento dell’alterità in tutto il suo valore unico e irripetibile.

Nello spettacolo, ossia – per dirla con Marai – nella frenesia di massa, non c’è spazio per la significazione individuale, al contrario, tutto assume un senso collettivo ben specifico: Tomy non è semplicemente quella orsa, è invece la rappresentazione della mostruosità da cui l’uomo si è distaccato. Domare Tomy, uccidere Tomy, è seppellire la nostra stessa animalità, è mettere in scena un rituale attraverso il quale ci si convince di essere altro che animali.

Questi “spettacoli” funzionano perché la collettività a cui si rivolgono accetta di reiterare la finzione secondo cui l’uomo non è mai un animale, egli è piuttosto colui che li doma e assoggetta, in accordo con il racconto biblico (o almeno con gran parte di esso). Senza queste basi culturali e simboliche nessuno spettacolo potrebbe definirsi tale.

Questa volontà di forcludere il dolore o di esasperarlo come fosse, appunto, uno spettacolo è una presa di posizione dell’umano nei confronti dell’alterità: non si tratta dell’animale si tratta sempre dell’umano. Anche gli spettacoli, come le metafore, mettono in scena delle trasfigurazioni: il soggetto animale è posto al centro dell’arena per dimostrare, attraverso il suo corpo, le possibilità dell’uomo; è il mezzo attraverso il quale si sceglie di perpetrare un discorso culturale e i suoi significati, all’interno del quale tutto ha un ruolo e un copione da seguire.

Credo che il racconto di Márai sveli una resistenza da parte dell’animale, che mostri in maniera quanto mai lucida cosa significhi la spettacolarizzazione del dolore a scapito di un soggetto e riesca a far affiorare la natura sociale e simbolica che ogni essere vivente rappresenta all’interno del discorso umano.

La sensibilità della scrittura di questo romanzo ci rammenta che la storia dello spettacolo animale ricalca la storia dell’antropocentrismo, ma ci mette di fronte anche alla natura sociale delle nostre convinzioni tentando di toccare temi fondamentali come quello del lutto animale, del riconoscimento e del distacco dell’uomo dal resto della natura.

Dandoci una prospettiva sui meccanismi collettivi di frenesia ed eccitazione ci permette di tornare in possesso del nostro spirito critico, ridandoci al contempo la responsabilità delle nostre azioni entro un quadro sociale che non si riduca al solo umano.

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