Roberta Landre
pubblicato 3 anni fa in Gli animali che amiamo

Dell’animale non si butta via niente

Dell’animale non si butta via niente

L’esperienza mi aveva insegnato molto presto che possiamo commettere degli errori indipendentemente dalla nostra volontà, e poco tempo dopo imparai anche che possiamo commettere degli errori senza neanche capire cosa abbiamo fatto e perché siano errori (George Orwell, E tali erano le gioie, in Romanzi e Saggi).

Negli ultimi anni il dibattito pubblico è stato attraversato da questioni riguardanti il trattamento degli animali. A una maggiore presa di coscienza collettiva si è affiancata presto una crescente partecipazione alle vicende che coinvolgono la sfera non-umana; non senza accese polemiche, queste tendenze stanno sfidando il nostro senso comune. Ma come ci relazioniamo agli animali? Cerchiamo un po’ di capire le analogie e differenze che sussistono tra un approccio antropocentrico e uno antispecista.

Vorrei iniziare con un aneddoto autobiografico che credo possa essere in qualche modo significativo. Provengo da una famiglia metà toscana e metà lombarda, che ha da sempre allevato o acquistato animali per fini alimentari: sono cresciuta circondata da cani, gatti, galline, conigli, oche, cavalli, mucche, maiali, e per qualche tempo pure un toro, tutti – o quasi – hanno riempito il mio stomaco.

Diversi anni fa ho iniziato a problematizzare la mia condotta. Ricordo di aver avuto la chiara percezione che qualcosa non andava nel mio modo di interagire con gli animali. Ero decisa a smettere di nutrirmi e utilizzare qualsiasi organismo senziente. Tuttavia, per spiegarlo alla mia famiglia (senza troppi discorsi filosofici) ho pensato che sarebbe stato più chiaro dire semplicemente che se qualcuno aveva una faccia io non l’avrei mangiato. Tra le reazioni di scherno e quelle di disgusto una in particolare è stata rivelatrice. Mia zia mi fissava nel tentativo di capire in quale punto del mio corpo risiedevano queste convinzioni: «Ma i pesci non hanno una faccia! Le galline hanno il becco! E le api? Gli occhi nemmeno li vedi!».

Lì per lì mi sembrava che stesse dicendo delle stupidaggini per evitare di sentirsi chiamata in causa, oggi però credo che il punto sia più sottile. In qualche modo distingueva la “faccia” dal “volto”, come a voler marcare una differenza ontologica tra ciò che è un viso umano, con un certo valore, e il resto del mondo vivente, derubricato a semplice vita meccanica o, quantomeno, di minor dignità.

Un po’ come Levinas, anche mia zia ha pensato che il Volto non potesse essere quello di un animale non-umano, mantenendo per i Sapiens un eccezionalismo ontologico; io – dal canto mio – ho dato credito a Pirandello, quando sostiene che «Se si guarda negli occhi un animale, tutti i sistemi filosofici del mondo crollano».

In How Pig Parts Make the World Turn, Christien Meindertsmaspiega in quanti modi ogni parte del maiale viene utilizzata per fini umani. In tre anni di ricerca la studiosa ha seguito un unico animale catalogando tutti gli impieghi che ne facciamo: cenere ossea all’interno dei freni per treni, saponi, creme, balsamo per capelli, pennelli, colla all’interno della carta vetrata, pittura, cemento cellulare (cellular concrete), gelatina alimentare, filtri di sigarette, pallottole, valvole cardiache, carburante e, ovviamente, indumenti e cibo. Il maiale numero 0549 del peso di 103,7 chilogrammi ha prodotto esattamente 185 articoli diversi, sparsi in varie parti del mondo.

Vengono le vertigini a vedere l’efficienza raggiunta dalla nostra società nell’utilizzo degli animali: il detto «del maiale (o della mucca) non si butta via niente» può essere ormai applicato a gran parte delle specie che entrano in contatto con noi; le selezioniamo e modifichiamo geneticamente per massimizzarne la fruibilità.

Complice il capitalismo e la frenesia dell’attuale stile di vita non sappiamo esattamente cosa compriamo. È raro che qualcuno possa affermare con certezza di conoscere l’intero processo di produzione delle merci che troviamo sul mercato; credo che l’esempio del maiale numero 0549 sia stato per molti frastornante: chi mai poteva immaginare che ci fosse del maiale dentro certe pallottole? Eppure, la nostra società è fondata e sostenuta, letteralmente, dall’uso strumentale delle altre specie animali e dell’intero pianeta.

Chiunque sa che per placare i morsi della fame è necessario aprire il frigorifero, al più recarsi al supermercato, e se è vero che tra le nostre dispense figurano etichette e prodotti che richiamano la natura di quello che mangiamo, è altrettanto scontato che quando prendiamo un panino al prosciutto il referente della parola prosciutto è assente. Vediamo, appunto, dell’affettato e non un maiale specifico, tantomeno un maiale vivo, che ha emozioni, paure, affetti e pensieri. Il pensiero che ogni fetta possa essere la parte di più maiali fa quasi curvare la bocca in una smorfia; in un solo panino quello che chiamiamo prosciutto potrebbe con buona probabilità essere l’insieme di parti di più maiali, eppure la parola prosciutto nasconde i soggetti di cui ci stiamo cibando.

Ed è qui, sul termine soggetto, che si gioca la sfida. Una premessa è doverosa: ho voluto, per onestà intellettuale e per la riconoscenza che vi devo come lettori, aprire il dibattito presentandomi come schierata, moralmente e politicamente. La mia non è una visione neutrale, non ho l’assurda pretesa di essere in grado di parlare della vita altrui come di un qualcosa che non mi riguarda. Per cui, arrivati a questo punto, credo siate ben consapevoli che io vivo di un’etica antispecista e che il mio intento è quello di presentarvi la nostra società e le nostre azioni da una prospettiva che non è quella dominante, intesa come antropocentrica.

Torniamo a mia zia – che, come tutte le zie, ha come prima preoccupazione quella di sapermi sazia. Come molti di noi ha animali da compagnia, coccola il suo cane, fischietta ai canarini, parla con i cani dei vicini e lascia del cibo per i gatti randagi. Tuttavia, non vede come problematico il pollo in forno la domenica; possiamo dire che dà per scontato e legittimo l’uso di certi animali per fini umani, mentre inorridirebbe al pensiero di mangiarne altri.

Questo atteggiamento riflette quella che in sociologia si chiama scala sociozoologica (Sociozoologic Scale),una struttura gerarchica di valore che ci consente di classificare, definire e giustificare le nostre interazioni con gli animali non-umani; ciò che un animale è, e quindi il suo poter essere o meno utilizzato arbitrariamente dall’uomo, è il risultato di una rappresentazione culturale dell’animale.

Crediamo – erroneamente – che un animale sia più o meno pericoloso in base alla sua stazza, agli artigli, alla sua velocità etc. Scambiamo le nostre emozioni e sensazioni per fatti veri che riguardano l’animale stesso; ad esempio, il leone è bellissimo ma feroce mentre i vermi sono mollicci e inutili; e via dicendo…

In realtà, il re della savana è tutt’altro che un despota solitario, vive a stretto contatto con i membri del suo branco e dorme per gran parte della sua giornata; sono le leonesse a cacciare e anch’esse preferiscono certamente prede ben più gustose dell’uomo, dal cui bracconaggio tentano di sfuggire.

Percepiamo i vermi come viscidi e senza un’utilità, se non quella di far ribrezzo e magari portare delle malattie, invece già Aristotele li chiamava «gli intestini del suolo» per la loro capacità di smuovere, ingerire e fertilizzare il terreno: senza questi piccoli animali avremmo una drastica diminuzione della vegetazione.

Questi esempi vogliono chiarire il fatto che l’identità di una specie non è data dalle sue reali caratteristiche biologiche e comportamentali; al contrario, definiamo un animale in base a fattori culturali – si pensi all’immagine che la fiaba di Cappuccetto Rosso ricostruisce del lupo.

Rinchiudiamo nel termine “animale” tutto ciò che non è umano, come a volerci scrollare di dosso la natura che ci contraddistingue, riducendo svariati milioni di specie diverse a un unico termine generico. La nostra società si fonda proprio su questo strappo. Anche noi, come gli altri animali non-umani, abbiamo un posto nella scala ontologica: ci siamo riservati la vetta, il punto più alto, per legittimare il dominio sul resto del vivente.

Questo atteggiamento, l’impostazione culturale che ci ha da sempre nutrito ­– letteralmente – è antropocentrica nella misura in cui vede come unico titolare di dignità e rilievo morale l’uomo, inteso come il possessore esclusivo di certe caratteristiche arbitrariamente ritenute salienti per la separazione degli umani dal resto del regno animale. Siamo gli unici soggetti in un mondo di mezzi; tutto è preso, modificato, selezionato e utilizzato per i nostri bisogni e al fine di legittimare queste pratiche abbiamo sostenuto che gli animali non fossero come noi.

Ci descriviamo come i più intelligenti, gli unici con un’anima e con un linguaggio, i più sensibili, artistici o morali, i soli che possono fare progetti e ricordare il passato, ad esempio.

Siamo disposti a tutelare altre specie solo indirettamente, in virtù del fatto che per noi, e non di per sé, hanno delle caratteristiche utili o preferibili. Quanti provano repulsione per il festival di Yulin in Cina, dove migliaia di cani vengono uccisi? Eppure, facciamo nascere e alleviamo senza problemi svariate specie al fine di ucciderle per nutrircene. È allora chiaro che i cani, nelle nostre società, hanno un valore diverso che a Yulin, uno status che non può che essere frutto di una tradizione culturale dato che i cani, biologicamente parlando, sempre cani sono, sia in Italia che in Cina. Giustificare i nostri comportamenti attraverso delle basi biologiche è fallace e contraddittorio: mangiamo i maiali non per le loro caratteristiche biologiche, perché meno intelligenti o meno senzienti, ma perché culturalmente possiamo e siamo invitati a farlo.

Potrà forse risultare frastornante sapere che il maiale ha doti cognitive ed emotive di gran lunga più fini di quelle di un cane: riesce ad usare uno specchio per scovare il cibo nascosto, crea legami affettivi molto profondi, si districa senza troppe difficoltà nei labirinti, ha una spiccata memoria a lungo termine e comprende il linguaggio simbolico. Eppure, nonostante le evidenze scientifiche, li mangiamo senza porci il problema della legittimità di queste violenze.

Non è la biologia a guidare le nostre scelte, è la cultura – l’assegnazione di status morale – che determina chi sarà tutelato e chi diventerà, senza lasciar traccia, del prosciutto.

Come sosteneva Darwin nell’Origine dell’uomo, le facoltà mentali e morali che riscontriamo nella nostra specie sono il frutto dell’evoluzione, un processo che lungi dall’essere esclusivamente umano permea l’intero mondo vivente, con il risultato che le differenze di capacità tra gli animali non sono qualitative bensì quantitative, di grado.

Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso fato. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà di ragionare o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno o di una settimana o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?” (Jeremy Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, 1823).

È il fatto di essere senzienti, il provare piacere e dolore, che mette in crisi il sistema antropocentrico; non è forse il dolore il motivo per cui ci affanniamo a combattere le ingiustizie e a ribellarci ai soprusi? E allora se tale sensibilità appartiene anche agli animali – per lo meno a quelli con un sistema nervoso – pare del tutto arbitrario ignorare la vulnerabilità che ci accomuna nella psiche e nel corpo.

Non è più lecito affermare che i nostri interessi sono sempre e comunque preferibili rispetto a quelli di altri organismi senzienti, proprio perché la comune sensibilità ha crepato definitivamente il muro che ci separava dal resto degli animali. Quelli che consideravamo diversi, biologicamente e ontologicamente, sono diventati nostri prossimi, sia in senso evolutivo – siccome deriviamo da un comune processo biologico – che in senso morale, perché è la somiglianza che inevitabilmente ci accomuna tutti in quanto soggetti.

La sfida al paradigma antropocentrico si gioca su piano dell’inclusività e della vulnerabilità, temi che, come vedremo nei prossimi articoli, sono politici e coinvolgono categorie sociali umane più di quanto ci si aspetterebbe.

Mia zia continua a cucinare il pollo comprato al supermercato nonostante abbia difficoltà a uccidere con le sue mani le galline del pollaio; forse chi sceglie di mangiare degli animali dovrebbe provare a passare un po’ di tempo con alcuni di loro.

È stupefacente scoprire quanta pazienza può insegnarti un asino quanto tenti di suscitare il suo interesse senza ottenere risultati, ci vuole coraggio ad ammettere che in quel recinto, sotto quel pelo ispido c’è qualcuno che, come noi, guarda e giudica.