“La casa deserta” di Lidija Čukovskaja
racconto senza eroe
Nel suo semplice grembiule nero – il colletto però era fatto con autentico pizzo antico – con la matita ben temperata nel taschino, si sentiva attiva, importante, e al tempo stesso elegante.
La casa deserta (Opustelyj dom, tradotto da Giovanni Bensi per Jaca Book, collana Calabuig) di Lidija Čukovskaja è una povest’ composta a Leningrado nell’inverno del 1939-1940, sulla fresca traccia dei fatti appena accaduti all’autrice. Il titolo è una citazione di un verso della poesia Sentenza di colei che diede voce al grido straziato delle madri di una intera generazione di figli spazzati via dal mortifero vento sovietico: Anna Achmatova.
Il destino di questo testo era stato affidato a un quaderno di scuola della scrittrice sul quale lo aveva ricopiato in bella. Oltre qualsiasi aspettativa, le pagine del libretto sfuggirono alla distruzione della censura e sopravvissero alle persone a cui era stato affidato in custodia che morirono durante l’assedio della città ma riuscirono comunque a metterlo chissà come in salvo. Relegare il tutto in un cassetto con il rischio di vederlo confiscato sarebbe stato troppo per Čukovskaja, che vi vedeva la testimonianza degli atroci eventi vissuti dal suo Paese e dai suoi cari. Così l’esigenza di denunciare l’orrore della repressione scavalca i limiti della prudenza e della sottomissione al regime e si fa voce dei cittadini non solo di Leningrado ma di tutta l’Unione Sovietica, stretta nella morsa di quella prigione che era diventato ormai il suolo russo. L’obiettivo de La casa deserta era infatti quello di aiutare a capire la matrice e le conseguenze della tragedia che aveva investito il suo popolo.
La vita di Olga Petrovna sembra del tutto normale: dopo la morte del marito dedica tutte le sue forze all’educazione del figlio Kolja, si iscrive a un corso di dattilografia e, una volta ottenuto il diploma, trova un impiego in una casa editrice di Leningrado. Ama andare in ufficio e grazie alla sua diligenza e discrezione viene nominata in breve tempo prima dattilografa.
La sua giovane collega Nataša non gode della stessa fortuna. Nonostante simpatizzi per il regime sovietico, la sua richiesta per entrare nel Komsomol (l’Unione della Gioventù Comunista) viene respinta ogni volta. L’essere figlia di un colonnello zarista e proprietario di una casa le impedisce infatti di entrare a far parte attivamente alla vita dello Stato ed è perciò costretta a vivere nell’ombra. Per Olga Petrovna, invece, più tempo passa nella casa editrice, più si omologa al sistema:
Adesso Olga Petrovna non riusciva proprio a capacitarsi di come avesse potuto passare tutta la vita senza un impiego. Era pienamente d’accordo con Kolja quando lui le spiegava la necessità per una donna di svolgere un lavoro socialmente utile. E poi tutto ciò che diceva Kolja, tutto ciò che scrivevano i giornali, le sembrava adesso del tutto naturale, come se si fosse sempre scritto e parlato così.
La propaganda e il culto della personalità la inglobano completamente e la portano a gioire dei bigliettini di Natale con la scritta “Grazie al compagno Stalin per la nostra felice infanzia” o nel vedere la testolina ricciuta di Lenin bambino incollata al centro di una stella rossa a cinque punte sull’abete in ufficio.
Da Kolja, Olga Petrovna impara gli slogan e il significato della rivoluzione che si concretizzano in azioni quali la requisizione degli appartamenti borghesi e la successiva assegnazione di ciascuna camera a una famiglia, o con il rifiuto di ammettere la povera e fiduciosa Nataša al Komsomol. Per il ragazzo non si tratta certo di una ingiustizia – concetto, tra l’altro, classista – ma di scrupolosa vigilanza nei confronti dei nemici del popolo sempre pronti a tendere agguati. D’altronde la vita della donna è tutta in funzione dell’amato figlio: per lui sono il cibo e i vestiti, per lui l’istruzione e l’educazione nel tentativo di costruirgli un radioso avvenire.
I sacrifici di entrambi sono ben presto ripagati: Kolja e il suo amico Alek vengono mandati a Sverdlovsk per lavorare in una fabbrica in qualità di capireparto. Il sogno di Olga Petrovna di avere un figlio di successo oltre che un buon cittadino sovietico si realizza quando una mattina vede il volto sorridente di Kolja stampato sulla prima pagina della Pravda. Il ragazzo ha infatti elaborato un procedimento di fabbricazione delle frese di Fellows.
L’incanto di una vita felice tende presto a svanire con l’arrivo del 1937. Le purghe staliniane sono già iniziate da un anno e nella vicenda di Olga Petrovna irrompe la Storia. In ufficio infatti giunge la voce del secondo processo ai medici, detto dei Diciassette, in cui eminenti dirigenti del Partito che erano stati indicati da Lenin nel suo testamento come suoi possibili successori sono arrestati e fucilati con l’accusa di voler assassinare il compagno Stalin. Nella sua cieca accettazione di una verità di cartapesta, la donna naturalmente crede alla menzogna sovietica. Quando l’ex capo della tipografia e il giovane e buono direttore della casa editrice cadono vittima delle accuse del Partito, la fiducia maturata nei confronti della stampa, foriera di verità assolute, e nel regime, baluardo della giustizia, comincia però a vacillare.
Tutto il suo mondo le crolla definitivamente addosso quando Kolja viene arrestato. Inizia così la sua “via dei tormenti”. Ed è qui che la vicenda di Anna Achmatova riaffiora. Olga Petrovna viene travolta nella tempesta polverosa della burocrazia sovietica. Ogni mattina si reca al commissariato per tentare di avere notizie del figlio, sul motivo del suo arresto, sulla sua salute. E così anche lei si trova a riempire la fila di quelle madri che ormai sfigurate dal dolore si mettono in silenzio in coda. Il Requiem di Achmatova ben descrive questa situazione. Lei stessa ha aspettato interminabili ore per ricevere novità sul figlio Lev, destinato a trascorrere ben quattordici anni in un campo di lavoro.
Olga Petrovna esaminò attentamente la casa di fronte alla quale s’accalcavano le donne: una casa qualsiasi, senza alcuna insegna. Cosa mai aspettavano là? Nella folla v’erano signore con cappotti eleganti e donne semplici. […] Una donna con in braccio un lattante teneva per mano un altro bambino avvolto in una sciarpa incrociata sul petto. Vicino al muro stava, solitario, un uomo. Tutti avevano i volti verdastri: era forse la bruma del mattino a farli apparire tali.
Il calvario di Olga Petrovna però è solo appena cominciato. Anche Alik viene arrestato per aver intrattenuto rapporti con Kolja e Nataša, da sempre innamorata del figlio della sua collega, soccombe sotto il peso di tale dolore. La donna si ritrova perciò sola e di colpo invecchiata di cento anni. L’assoluta certezza della innocenza del ragazzo e l’eterna illusione di un suo ritorno la fanno sopravvivere in una esistenza ormai trascinata avanti a passi stanchi e pesanti. Inutili sono le lettere indirizzate a Stalin nell’estremo tentativo di salvare la vita di Kolja. La speranza, infine, cede alla rassegnazione. Olga Petrovna è impotente davanti a una repressione che colpisce tutti, senza distinzione di ceto, istruzione o innocenza.
Sentenza
E sul mio petto ancora vivo
piombò la parola di pietra.
Non fa nulla, vi ero pronta,
in qualche modo ne verrò a capo.
Oggi ho da fare molte cose:
occorre sino in fondo uccidere la memoria,
occorre che l’anima impietrisca,
occorre imparare di nuovo a vivere.
Se no… Oltre la finestra
l’ardente fremito dell’estate, come una festa.
Da tempo lo presentivo:
un giorno radioso e la casa deserta.
(Da Requiem, trad. it. Michele Colucci)