“Tutto scorre…” di Vasilij Grossman
né vincitori né vinti
Non ci sono innocenti fra i vivi, siamo tutti colpevoli.
È il 1970 e in Francia viene pubblicato Tutto scorre… (Vsë tečët…, Adelphi, 1987, trad. it. G. Venturi). Vasilij Grossman, che lo aveva scritto tra il 1955 e il 1963, non vide mai il suo libro nelle vetrine perché morì sei anni prima, stroncato da un cancro. A nulla valsero infatti le lettere indirizzate a Chruščëv in cui lo scrittore chiedeva di far vedere la luce alle sue ultime opere, tra le quali c’era anche il monumentale Vita e destino.
Quella narrata in Tutto scorre… è una vicenda personale che diventa specchio della Storia. Fra i tanti viaggiatori seduti su un treno diretto a Mosca ce n’è uno che per guisa e aspetto assomiglia a un dignitoso fantasma: è Ivan Grigor’evič. Sta andando a trovare suo cugino Nikolaj ma la sua non è una visita a cuor leggero. È infatti lo spettro di ciò che rimane di Ivan a presentarsi alla porta del cugino, lo spettro di chi torna dall’inferno dopo trent’anni passati in un lager. A differenza di altre opere che entrarono a far parte della cosiddetta “prosa concentrazionaria” come, per esempio, Una giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn, questa non rappresenta una testimonianza diretta. Grossman, invero, non è mai stato deportato. Anzi, fino al 1953 godeva di grande fama tra gli scrittori sovietici. Ma allora perché tale ostracismo nei suoi confronti?
Egli è, come sostiene Todorov, il solo scrittore sovietico «a essere stato, dapprima, un servitore ortodosso e impaurito del regime, e ad avere osato, in un secondo tempo, confrontare il problema dello stato totalitario in tutta la sua ampiezza».
Nel 1934, il futuro scrittore abbandona la carriera di chimico per intraprendere la strada delle lettere. Negli anni Trenta, il suo essere iscritto all’Unione degli Scrittori, lo fa beneficiare di numerosi privilegi. È proprio per non perdere tali agiatezze che finge di non vedere gli arresti di parenti e amici. Nel 1937, difatti, è sua una delle firme su una lettera collettiva che chiede la pena di morte per alcuni dirigenti bolscevichi, fra i quali vi è anche Bucharin. Rompe il silenzio solo quando viene arrestata sua moglie, Olga Guber, perché il suo ex marito, Boris, è bollato come nemico del popolo. Grossman si mobilita, chiede aiuto al capo della polizia politica e riesce a far scarcerare la donna. Del destino del precedente compagno di Guber – nonché vecchio amico dello scrittore stesso – egli non si preoccupa. Morirà infatti fucilato. Solo dopo la morte di Stalin e l’inizio del disgelo, cessa di temere per la propria vita e decide di uscire dal proprio silenzio riguardo le repressioni del totalitarismo. Passa così dal realismo socialista a un realismo “autentico”. Ecco, dunque, che la storia di Ivan può uscire dalla penna e marchiare i fogli con inchiostro indelebile e quella imperiosa necessità personale da cui è mosso può vedersi concretizzata. Per vivere il presente egli deve prima comprendere il passato. I cittadini sovietici, rimettendo le sorti del proprio destino nelle mani del Potere, si sollevarono dal gravoso fardello delle scelte morali. Scelte che portano con sé la responsabilità di inevitabili conseguenze. Il vitreo silenzio dell’indifferenza di fronte alle sofferenze umane è segno di una coscienza ormai convinta di essere priva di ogni colpa. E se il tarlo del dubbio fa per caso capolino, lo si scaccia con un distratto gesto della mano. Nikolaj Andreevič, in un primo momento, infatti, si sente in colpa per il cugino Ivan, lui che con il suo silenzio assenso è riuscito a schivare la scure della censura e la ghigliottina delle purghe. Lui, scienziato mediocre ma astuto e pusillanime essere – alla fine ancora – umano, che ha raggiunto il successo lavorativo sui cadaveri dei suoi colleghi ben più capaci e dotati è un personaggio vile, ha paura di perdere i propri privilegi ed è disposto a chiudere entrambi gli occhi e vivere in un’oscura indifferenza pur di non esporsi. Per Nikolaj tutto scorre e, per non essere trascinato via dalla corrente insieme agli altri, si appoggia alle rocce dando calci a chi cerca di aggrapparsi alle sue gambe per sfuggire alla furia della corrente.
Dopo un iniziale senso di colpa nato dall’imminente arrivo del cugino dall’inferno del gulag, il sentimento va ben presto svanendo poiché, altrimenti, dovrebbe mettere in discussione la sua intera vita e il suo sistema di valori, dovrebbe scoprire le carte, guardarsi in faccia e smascherarsi e infine scoprire che sotto quel velo di benevolenza e carità – solo a parole – nei confronti dei colleghi piegati dalle repressioni, non c’è altro che vuoto. Il contrasto fra i due cugini è palese: Nikolaj è da tempo un pingue intelligent, Ivan un revenant appena tornato dal regno dei morti. Il primo non è mai stato uno scienziato brillante, il secondo invece era uno studioso promettente ma ostacolato nella sua lotta per la libertà. Ivan, con i suoi trent’anni in Siberia, era ormai scomparso dalla memoria di molti. La sua liberazione scoperchia il vaso di finzioni e menzogne che chi è rimasto libero e si è pasciuto di vodka e caviale voltando lo sguardo sulle miserie altrui e anzi spesso apponendo la propria firma su quelle delazioni che poi li portarono nei gulag ha finto di non vedere. L’oblio che aveva salvaguardato le loro coscienze viene ora squarciato dal verme del dubbio e della colpa. Con lui non torna solo un morto vivente ma anche tutto il carico che il passato fa gravare sulla sua persona.
Una volta lasciata la casa del cugino, Ivan arriva in una città dove trova lavoro come fabbro in una cooperativa di invalidi. Qui conosce Anna Sergeevna Mikaleva, presso cui affitta una stanza. Si stabilisce a casa sua e, finalmente, trova serenità e amore. Partendo da una confessione della donna, il narratore racconta della dekulakizzazione e dell’Holodomor, la grande carestia indotta da Stalin che devastò l’Ucraina fra il 1932 e il 1933. La Storia viene raccontata attraverso vicende familiari strazianti ed è in quell’intimità che la brutalità del potere staliniano colpisce più forte.
L’ultima parte, dal taglio più saggistico che romanzesco, vede Grossman riflettere circa le origini del regime e la continuità fra le figure di Lenin e Stalin nello sviluppo del totalitarismo.
Insomma, non si salva nessuno.
E l’uomo, che per tre lunghi decenni mai aveva ricordato che esistono al mondo arboscelli di lillà, viole del pensiero, viottoli in giardino cosparsi di sabbia, i carretti della gazzosa – emise un pesante sospiro ancora una volta convincendosi che pur senza di lui la vita era andata avanti, era continuata.